KIT DI SOPRAVVIVENZA CULTURALE

 

 

Si spengono gli schermi, ma non la nostra capacità di sognare con il cinema...

 

Le nostre attività sono da tempo chiuse al pubblico nel tentativo di limitare il più possibile la diffusione del contagio da Coronavirus. In questo momento in cui ci sentiamo tutti sospesi, abbiamo pensato di tenervi compagnia, a modo nostro, attraverso una rubrica su cosa fare, vedere, approfondire... a casa! Cercheremo di non farvi sentire la mancanza del grande schermo con la nostra presenza discreta, offrendo stimoli e consigli di visione per rendere più piacevole il tempo trascorso lontano dalle nostre sale. Gli approfondimenti sono a cura della professoressa Cristina Bragaglia, docente dell'Università di Bologna e direttrice della rassegna Sequenze di gola.

 

 

31 luglio 2020

100 ANNI DI FRANCA!

 

Pare quasi incredibile, ma oggi Franca Valeri (ovvero Franca Norsa: lo pseudonimo riflette l’ammirazione per il poeta Paul Valéry) compie 100 anni. Incredibile perché l’attrice e i suoi personaggi appaiono totalmente slegati da qualsiasi collocazione temporale, assoluti, validi al momento della loro creazione e anche ai nostri giorni.

Franca Valeri, attrice milanese, sceneggiatrice e regista, si è impegnata, sempre con successo, in tutti i campi mediatici, usando i toni di una comicità raffinate e sofisticata eppure di facile comprensione: dalla radio (dal 1949) al teatro (sede del suo esordio nello spettacolo nel 1946 e anche delle sue ultime esibizioni), dalla televisione, che le dà la celebrità, al cinema.

Come per altri grandi attori italiani, il cinema non solo non ha saputo offrirle molte occasioni, ma ha rinunciato a priori a scoprire possibili sviluppi delle sue capacità interpretative, limitandosi a portare sullo schermo, con variazioni più o meno lievi, i personaggi già sperimentati alla radio, a teatro o in tv.

Succede - quasi una premonizione – nel 1950 con il suo primo film, “Luci del varietà”, diretto da Alberto Lattuada e Federico Fellini, dove la Valeri interpreta un personaggio già conosciuto dal suo pubblico, la coreografa della compagnia teatrale, l’ungherese Mitzi, che fa il verso all’austriaca Gisa Gert, nota in Italia sin dagli anni ’30 per il suo lavoro nella rivista e in molta televisione.

Solo in quattro film a Franca Valeri viene assegnato un ruolo di rilievo e tutti (anche se per ragioni diverse) meritano una visione. In tre è al fianco di Alberto Sordi: Il segno di Venere (1955), film diretto da Dino Risi, Piccola posta (1955) di Steno, e il più noto Il vedovo (1959), ancora di Dino Risi.

Nel primo (un affresco dell’Italia pre-boom ancora legato a stilemi neorealisti) la Valeri sviluppa uno dei suoi personaggi ispirati alla realtà del tempo: la responsabile della seguitissima rubrica di lettere dei giornali femminili, che, romana piccolo borghese e sfortunata in amore, si nasconde dietro lo pseudonimo di Lady Eva, una baronessa polacca, e sfoggia una capigliatura color platino, del tutto insolita per l’attrice. Irresistibile la scena in cui imita l’Audrey Hepburn di “Vacanze romane” (1953), nel vano tentativo di sedurre l’uomo di cui si è invaghita. Sordi, in una parte secondaria, truffa cinicamente ricche vecchiette. 

Diverso il personaggio di Cesira, la zitella bruttina di Il segno di Venere. Al suo fianco la bellezza prorompente di una giovane Sofia Loren, nella parte di Agnese, la cugina che attira tutti gli sguardi maschili. Anche in questo film Sordi compare in un ruolo secondario e le protagoniste sono affiancate da Vittorio De Sica e Ralf Vallone. Nonostante l’attrice firmi anche soggetto e sceneggiatura, il suo nome nei manifesti appare in caratteri minuscoli o non compare affatto. Un segno visibile della scarsa considerazione con cui la Valeri è stata trattata dal cinema, perché il personaggio di Cesira rivelava una vena di malinconia e amarezza che avrebbe potuto trovare sviluppi; non fu così nel cinema di allora, impegnato a sfornare commedie appartenenti al cosiddetto neorealismo rosa. Si dovrà attendere il 1960 perché Risi approdi alla complessità di visione del “Sorpasso”.

Nel Vedovo (1959) Sordi e Valeri hanno ormai affinato tecniche interpretative e tratteggio dei personaggi. L’attrice fa evolvere l’originaria “Signorina snob” nella figura di una milanese che ha successo negli affari e che si ritrova un marito cialtrone e inetto, da lei chiamato “affettuosamente” Cretinetti. Dopo un disastro ferroviario nel quale lei viene creduta morta, il marito romano (Sordi) sogna (e cerca) di rimanere vedovo per ereditare le sue proprietà e il suo potere, finendo per combinare il solito disastro. Il personaggio di Elvira Almiraghi rappresenta una figura femminile inedita per il cinema di allora, per quelle forti venature di cinismo e spregiudicatezza, in cui la Valeri primeggia. Se la vicenda sembra alludere a un fatto di cronaca allora dirompente come il caso Fenaroli (1958), il film ancora oggi è un classico del cinema comico grazie soprattutto all’interpretazione di Valeri e Sordi e all’abile regia di Risi.

Dopo partecipazioni di scarso rilievo ad altri film, nel 1962 Franca è la protagonista di un film anomalo, diretto da suo marito, l’attore e regista Vittorio Caprioli, nei panni della raffinata prostituta romana Delia Nesti di Parigi o cara (il titolo ovviamente allude al duetto della “Traviata”). La vis comica surreale, affinata nei primi anni del dopoguerra nei cabaret della capitale, riemerge parzialmente, rinvigorita dalle suggestioni di Louis Malle e Raymond Queneau, con cui Caprioli aveva lavorato per “Zazie dans le metro” (1960). Delia sogna di andare a Parigi per trovare una svolta alla sua vita e nella seconda parte del film raggiunge là il fratello (Fiorenzo Fiorentini) che scopre essere gay e che vive in un minuscolo appartamento di periferia. A Parigi Delia non realizzerà i suoi sogni e si adatterà a tornare in Italia con il pizzaiolo che la corteggia (Caprioli) e che sposerà. Come Zazie che sale sull’agognato metro solo prima di ripartire, Delia riuscirà a vedere la Parigi monumentale l’ultimo giorno, prima di lasciare la città dei sogni e adattarsi a una vita mediocre. Una raffinata e (a tratti) divertente riflessione sulla solitudine, tema raramente affrontato nel cinema italiano di allora. La Valeri collabora alla sceneggiatura, mentre la scenografia e i costumi erano affidati a Giulio Coltellacci, profondo conoscitore della capitale francese. Racconta la Valeri: «Quando l’hanno proiettato a Venezia, fuori concorso, c’era seduto dietro di me René Clair che si meravigliava e continuava a chiedere: “Ma come hanno fatto? Come li hanno trovati questi posti? Come fanno a sapere che là c’era quell’albergo?».

La prova fornita dalla Valeri avrebbe potuto avere uno sviluppo notevole per la sua carriera, ma così non fu, forse per incapacità del cinema italiano, che continuò a utilizzarla in ruoli minori e irrilevanti (a volte mortificanti), con l’eccezione forse di “Crimen” (1960) di Mario Camerini e “Leoni al sole” (1961), film d’esordio di Vittorio Caprioli che getta uno sguardo disincantato sui dongiovanni della costiera amalfitana, allora di moda.

Nel 1983 la Valeri abbandona definitivamente i set cinematografici e ne darà la seguente, amara spiegazione: «Il cinema si è andato degradando; a poco a poco ho fatto film sempre più brutti, poi ho deciso di non farne più. Erano insopportabili. Il cinema italiano diventava commediaccia; ho preferito dedicarmi al teatro. Fino a pochi anni fa hanno continuato a offrirmi delle parti, i Vanzina e altri, che non ho mai accettato». Curiosamente negli anni Ottanta il grande pubblico l’apprezza e ne alimenta la notorietà per gli spot Melegatti, che girerà con la consueta ironia a partire dal 1984.

Se ne volete sapere di più, oltre a vedere i film, potete leggere l’intelligente e spiritosa autobiografia dell’attrice, edita da Einaudi, nel 2010: Bugiarda no, reticente. Ma anche il documentatissimo e appassionato Viva la Franca di Aldo Dalla Vecchia, appena edito da GRaphe.it Edizioni, ottenibile anche in E-book.

Buon compleanno all’attrice e buone vacanze a chi mi legge!

 

 


 

18 luglio 2020

NELSON MANDELA DAY

 

Nella seconda metà del Novecento la figura di Nelson Mandela è stata una icona politica, in grado di attrarre consenso in tutto il mondo alla sua causa contro l’apartheid, spietatamente imposto agli abitanti neri del Sudafrica. Lo si ammirava indipendentemente dalle posizioni ideologiche, sedotti anche dalle vicende della sua vita, una serie ininterrotta di lotte, di tribolazioni fisiche e spirituali, di lunghi 27 anni di carcere. La sua forza derivava dagli ideali pacifisti che guidavano la sua lotta per ottenere giustizia, partita da un piccolo villaggio rurale e approdata negli slums delle grandi metropoli. Nato il 18 luglio 1918 nella famiglia reale dei Thembu, fuggì a 23 anni a Johannesburg per evitare un matrimonio combinato. Laureatosi in legge nel 1943, iniziò la sua lotta contro la segregazione razziale nel 1948 quando alle elezioni si affermò il Partito Nazionale promotore dell’apartheid nella federazione anglo-olandese. Dopo un periodo di adesione alle idee non violente di Gandhi, Mandela, alla guida dell’African National Congress, appoggiò la lotta armata e per questo venne condannato all’ergastolo, nel 1964 con l’accusa di sabotaggio e alto tradimento. Dal carcere la sua influenza morale e il suo potere di persuasione si estesero in tutto il mondo, che in molte occasioni richiedeva la sua libertà. A metà degli anni Ottanta le pressioni e le condanne internazionali costrinsero il governo a intraprendere delle trattative con Mandela, che fu liberato nel 1990. Ebbe inizio la transizione democratica del paese in un clima di riconciliazione e pacificazione: nel 1993 Nelson Mandela, assieme al presidente del Sudafrica De Klerk, fu premiato con il premio Nobel per la pace. Le prime elezioni in cui tutti i sudafricani, bianchi e neri, votarono, nel 1994, lo proclamarono presidente, carica che mantenne fino al 1999. Nonostante i suoi sforzi, non tutti gli obiettivi del suo mandato furono raggiunti e le condizioni delle popolazioni nere non migliorarono come sperato.

Negli ultimi anni di vita Mandela, cui furono attribuiti moltissimi riconoscimenti, si ritirò a vita privata, anche se in molte occasioni continuerà a esercitare la sua autorità e a elargire la sua saggezza, sia nel suo paese che nel mondo, esortando a non desistere mai dalle lotte per le giuste causa. Un’infezione polmonare, conseguenza della tubercolosi di cui s’era ammalato in prigione, lo porterà alla morte dopo una lunga agonia, alla fine del 2013.

La sua vita (fino alla nomina a presidente) è al centro del film Mandela - La lunga strada verso la libertà diretto nel 2013 da Justin Chadwick: il caso volle che la notizia della sua morte fosse diffusa proprio mentre si svolgeva l’anteprima. Protagonista del film, tratto dall’autobiografia “Lungo cammino verso la libertà”, è il londinese di origine africana Idris Elba, qui in una delle sue migliori interpretazioni. Nato come TV-movie (fu distribuito nelle sale solo negli Stati Uniti), il film non riesce a liberarsi dalle limitazioni agiografiche del biopic autorizzato, ma intrattiene piacevolmente lo spettatore, ricostruendo abilmente la vita tormentata di Mandela.

Nel 2009 era spettato a Morgan Freeman (affiancato da Matt Damon) il compito di prestare il suo volto al personaggio di Mandela per un film diretto da Clint Eastwood; Invictus – L’invincibile traeva il suo titolo dalla poesia del 1888 di William Ernest Henley, che aveva sostenuto Mandela in carcere per il suo elogio alla forza che troviamo in noi stessi nelle condizioni avverse e che ci aiuta a vincere. Tratto da un romanzo, il film si incentra sul lavoro di Mandela (ormai presidente) per valorizzare il lavoro della nazionale mista di rugby, che nel 1995 arriva a vincere la Coppa mondiale di Rugby a Johannesburg, diventando un simbolo di coesione e di celebrazione dell’orgoglio nazionale.

Più che rievocare film celebrativi, ci sembra interessante andare a frugare nel passato e in quel cinema civile che molto spesso accompagna sommessamente le azioni politiche, fornendo un contributo non disprezzabile alla diffusione delle idee e alla conoscenza dei problemi.

Della drammatica condizione della popolazione nera in Sudafrica si interessa alla fine degli anni cinquanta Lionel Rogosin, esponente del New American Cinema. In Sudafrica gira clandestinamente, a volte utilizzando una candid camera, Come Back, Africa! (in Italia “Africa in crisi”), dove intreccia cinema verità e finzione neorealista per documentare la situazione sociale e il razzismo a Johannesburg, attraverso le tragiche vicissitudini di Zachariah, un contadino zulu che arriva in città per lavorare e resta coinvolto nella violenza della bidonville, in cui è costretto a far vivere la sua famiglia. Come si proponeva, Rogosin riesce a cogliere la realtà in modo spontaneo e fornisce un contributo fondamentale a svelare al mondo intero la gravità della situazione in Sudafrica, appoggiando le tesi delle organizzazioni antisegregazioniste, che lo avevano aiutato nelle riprese. Nel film, presentato in anteprima alla Mostra di Venezia 1959, compare la giovane Miriam Makeba, la cantante sostenitrice di Mandela e dell’African National Congress, di lì a poco costretta dal regime a un esilio trentennale. La collaborazione di Rogosin con cineasti e intellettuali sudafricani ebbe come corollario la fioritura di un cinema d’opposizione, che, come si può immaginare, non ebbe vita facile e costrinse alcuni all’esilio.

Un'altra opera, molto più tradizionale nello stile, fornì un importante contributo alla causa antiapartheid e contribuì ad accelerare la liberazione di Mandela: Grido di libertà diretto nel 1987 dal cineasta inglese Richard Attenborough. Tratto da due libri di Donald Woods, il film racconta gli eventi che caratterizzarono l’amicizia tra Steve Biko, leader del movimento “Black Consciousness”, e il giornalista afrikaner Donald Woods, caporedattore del quotidiano liberal “Daily Dispatch” di Johannesburg. Protagonisti del film sono due grandi attori come Denzel Washington e Kevin Kline.  L’azione si colloca negli anni settanta, al culmine della lotta e della repressione. Biko si batte per l’integrazione razziale, adottando i principi della non violenza e, dopo una diffidenza iniziale, Woods, sulle pagine del suo giornale, si fa paladino delle richieste degli antiapartheid e diventa amico dell’attivista, che morirà in carcere nel 1977, brutalmente picchiato dalla polizia. Woods, sottoposto a misure restrittive e costretto a lasciare il suo lavoro, riesce ad abbandonare avventurosamente il Sudafrica e a chiedere asilo politico in Gran Bretagna dove potrà raccontare la vera storia di Biko e diventerà un ambasciatore nel mondo della causa anti-apartheid. Nell’estate 1990 si ritroverà a Londra con Nelson Mandela da poco liberato e venuto a ringraziare gli inglesi per l’appoggio prestato alla sua causa.

I film ci aiutano a rievocare Mandela e le sue battaglie, ma è fondamentale avere sempre presente una sua esortazione: “Dobbiamo usare saggiamente il tempo e capire che i tempi sono sempre maturi per fare la cosa giusta.”

 

 


 

6 luglio 2020

GIORNATA INTERNAZIONALE DEL BACIO

 

Fin dalle origini, il cinema porta sullo schermo la più dolce manifestazione amorosa.  Secondo i giornalisti statunitensi, il primo vero bacio cinematografico compare in un filmato di 25 secondi del 1896, The Kiss, girato da Thomas Edison con due attori, lui con baffi imponenti. Potete vedere la poco romantica scena a questo indirizzo web https://www.youtube.com/watch?v=IUyTcpvTPu0

Gli anglosassoni amano molto stendere classifiche e anche i baci delle pellicole non sono sfuggiti a test e inchieste. Nelle più recenti un film appare sempre in vetta: Titanic (1997) di James Cameron. Il bacio appassionato di Rose e Jack (Kate Winslet e Leonardo DiCaprio) sul ponte anteriore della nave affascina ancora, forse perché preludio – radioso - di una tragedia che separerà i due innamorati, forse per il felice connubio degli attori, che simbolizzano una attrazione fisica e spirituale ad un tempo. Da non sottovalutare l’apporto alla scena dell’accompagnamento musicale, “My Heart Will go on” di Celine Dion, theme song del film. 

Dalle varie classifiche emergono anche due film del periodo classico: Notorious (1946) di Alfred Hitchcock e Da qui all’eternità (1953) di Fred Zinnemann.

Il film di Hitchcock sfida un puritano codice Hays (ancora imperante negli anni ’40), che limitava la durata di un bacio a soli 3 secondi, facendo susseguirsi i baci  per quasi 3 minuti e inserendo la sequenza in una situazione estremamente ambigua, perché Ingrid Bergman (nella vita reale alla vigilia della scandalosa love story con Rossellini) bacia Cary Grant (responsabile FBI dell’operazione spionistica), dopo aver ammesso la necessità di sposare il nazista, la cui rete di attività in Sud America deve essere smascherata. Hitchcock nella sua celebre intervista a Truffaut, dichiara che aveva concepito l’inquadratura in maniera che il pubblico si sentisse direttamente coinvolto in questo lungo abbraccio, come fosse una terza persona partecipante. Il risultato è tale che i critici l’hanno definita la scena più romantica dell’intera opera di Hitchcock, sottolineandone anche la portata erotica.   

Erotismo che emana anche dalla scena del bacio di Da qui all’eternità: Burt Lancaster e Deborah Kerr, protagonisti di un amore clandestino nella Pearl Harbour del 1941, poco prima dell’attacco giapponese. Fred Zinnemann, viennese di nascita, regista oggi ingiustamente dimenticato, allora premiato con l’Oscar per la regia, riesce a sintetizzare nella celebre sequenza l’attrazione erotica che guida la vicenda amorosa: i corpi allacciati sulla battigia vengono raggiunti dalle onde, metafora iconica della passione, impeccabilmente fotografati da Burnett Guffey, anch’egli ricompensato con l’Oscar. Il codice Hays impediva la rappresentazione dell’atto sessuale, ma in questo caso la sensualità viene esaltata dalle allusioni cui ricorre Zinnemann, reduce dal minimalismo di “Mezzogiorno di fuoco”. Fu il regista a volere il bianco e nero, rinnovato da uno dei primi formati panoramici, che esalta l’orizzontalità della celebre scena. Ancora oggi il bacio sulla riva del mare viene ricordato ogni qualvolta si parla del film, tratto dall’omonimo, voluminoso romanzo di James Jones e magistralmente ridotto da uno sceneggiatore come Daniel Taradash.        

Il problema censorio appare anche nel film di Giuseppe Tornatore, Nuovo cinema paradiso (1988) ma è di tipo diverso e diventa l’occasione per una sequenza ricca di lirismo e di nostalgia per il passato. Nell’Italia di provincia degli anni cinquanta sono ancora i parroci a dettare le regole della morale e Alfredo (Philippe Noiret), proiezionista nel cinema di un paesino siciliano, deve tagliare ogni sequenza che alluda all’attrazione sessuale o anche solo amorosa. Alfredo conserva i pezzi di pellicola tagliati e li monta in una bobina che Salvatore, introdotto al cinema dallo stesso Alfredo e regista affermato, ritrova dopo il funerale dell’amico e mentore. La successione dei baci (che recupera tutto il sapore del cinema del passato) diventa la conclusione ideale di una vicenda imperniata sull’amore per il cinema, ma anche per la vita, di cui il bacio è fondamentale espressione.

Dal 1992 MTV ha bandito un premio, il Best Kiss, che annualmente viene assegnato alla sequenza considerata più significativa, volendo anche marcare una lontananza dal mainstream hollywoodiano. Scorrendone la lista, balza agli occhi la prevalenza di film dedicati a un pubblico giovanile, come l’ultimo assegnato nel 2019, il bacio tra Noah Centineo e Lana Condor in “Tutte le volte che ho scritto ti amo”, tratto da un bestseller per adolescenti e distribuito da Netflix. Dal 2009 al 2012 i baci premiati sono quelli della serie “Twilight” con gli attori Kristen Stewart e Robert Pattinson. Al di là delle dichiarazioni, non mancano film vicini alla tradizione hollywoodiana, come “Proposta indecente” (1994), “Independence Day” (1997) o “Shakespeare in Love” (1999). Nel 2006 invece prevale l’anticonformismo con il premio assegnato all’appassionato bacio tra Jake Gyllenhaal e Heath Ledger, i due cowboy dei Segreti di Brokeback Mountain, il film diretto da Ang Lee. Nel 2017 si consacra un altro bacio omosessuale: quello tra i due protagonisti adolescenti di Moonlight, frutto non della passione ma piuttosto di una sfida iniziatica. Se però si legge la storia del premio, l’episodio che viene maggiormente ricordato è quello del 2005, quando vince Le pagine della nostra vita, ricavato da un romanzo di Nicholas Sparks: Rachel McAdams e Ryan Gosling ripeterono sul palco di MTV il bacio appassionato del film, dato che in quel momento erano una coppia anche nella vita reale. E sui baci cinematografici tra coppie di innamorati, in bilico tra finzione e realtà, si potrebbe davvero scrivere un libro.

In questa giornata a essi dedicata, godiamoci dunque i baci, siano essi cinematografici, siano reali o, in assenza, di cioccolato: sarà comunque un momento di felicità.

 

 


 

29 giugno 2020

ANNIVERSARIO VITTORIO GASSMAN

 

Vittorio Gassman ci ha lasciato a 77 anni il 29 giugno 2000, alla fine di un periodo in cui la depressione lo aveva costretto a rallentare (ma mai a chiudere) il suo fecondo rapporto con il cinema e il teatro. La sua vita artistica si è divisa tra il palcoscenico e i set cinematografici, sin dall’inizio. Allievo dell’Accademia nazionale d’arte drammatica, sin dall’immediato dopoguerra attore tra i più interessanti di un teatro in pieno rinnovamento, sul palcoscenico sviluppa un discorso personale di attore tra teatro classico e leggero, spesso con compagnie da lui avviate e dirette. Nel 1979 fonda a Firenze, in Oltrarno, la Bottega Teatrale, scuola e laboratorio per aspiranti attori e fucina di spettacoli. Al suo fianco Giorgio Albertazzi, Orazio Costa, Ettore Scola e lo storico teatrale fiorentino Siro Ferrone.

Il cinema scoprì il suo talento subito dopo la guerra, ma il ruolo che richiamò l’attenzione fu quello del farabutto di Riso amaro, film di ascendenza neorealista e di impianto hollywoodiano, diretto nel 1949 da Giuseppe De Santis. Fu persino invitato a Hollywood a riproporre lo stesso personaggio, aiutato da un fisico atletico e prestante. Al suo ritorno in Italia, dopo una partecipazione al Guerra e pace di King Vidor, girato nel 1956 in varie location italiane, Mario Monicelli ebbe l’intuizione che impresse una svolta alla sua carriera cinematografica, assegnandogli una parte comica, quella del capo della sgangherata banda dei Soliti ignoti (1958). Fu il primo di una galleria di personaggi che, grazie alle caratteristiche comiche spesso aggressive, a volte brutali, nel corso del tempo disegnano grottescamente un italiano medio, meno ingenuo di quello tratteggiato da Alberto Sordi.

In questa galleria primeggia lo sbruffone di mezz’età del “Sorpasso”, maestro dell’arte di arrangiarsi e dell’apparire, che nella Roma deserta ferragostana inizia sulla via Aurelia un viaggio verso la Toscana che si conclude in tragedia, ma che offre lo spunto per una serie di momenti comici che non solo descrivono i malcostumi degli italiani di allora, ma ne preannunciano altri che si diffonderanno negli anni a seguire. Dino Risi è il regista dell’opera migliore della commedia all’italiana, coadiuvato nella sceneggiatura da Ettore Scola e Ruggero Maccari. Siamo nel 1962 e l’immatura canaglia abilmente impersonata da Gassman aiuta a comprendere nel profondo l’Italia del boom, che si avvia a perdere ogni residua ingenuità.

Nel 1966 Gassman ritrova Mario Monicelli per “L’armata Brancaleone”, dove l’attore offre una variante medievale dello sbruffone con il personaggio di Brancaleone, improbabile e divertente capitano di ventura che guida un manipolo di straccioni, animato da surreali ideali cavallereschi che entrano in conflitto con le cruente situazioni dell’Italia dell’anno mille. Il film si regge interamente sul suo personaggio e l’attore è coadiuvato da eccellenti comprimari, come Gianmaria Volonté, Enrico Maria Salerno, Carlo Pisacane e Folco Lulli. Gli sceneggiatori Age e Scarpelli inventarono un linguaggio immaginario in cui l’italiano si mescola a un latino maccheronico e a forme dialettali, fonte anch’esso di grande comicità ed entrato, nelle sue battute migliori, nel lessico quotidiano. Film di grandissimo successo, ebbe un sequel con “Brancaleone alle Crociate” (1970).

“L’armata Brancaleone” fu presentato in concorso al festival di Cannes del 1966, ma non gli fu assegnato alcun premio. Nove anni dopo, invece, Gassman ricevette dalla giuria presieduta da Jeanne Moreau il Prix d’interprétation masculine per il ruolo del capitano Fausto Consolo in “Profumo di donna” (1974), che Dino Risi aveva ricavato dal romanzo “Il buio e il miele” di Giovanni Arpino. Il comico delle precedenti interpretazioni sfuma nel melanconico per mettere a punto un carattere sfumato e complesso come quello del cieco, creato dallo scrittore piemontese (che tuttavia, insoddisfatto, criticò la versione di Risi e la recitazione di Gassman). Il premio a Cannes fu solo uno dei molti riconoscimenti che l’attore ricevette per il suo personaggio, più realistico e meno enfatico di quello tratteggiato da Al Pacino, per il remake statunitense “Scent of a Woman” (1992) diretto da Martin Brest.

Un altro film che assicura premi all’attore è “La famiglia” (1987) di Ettore Scola, che segue la vita di Carlo dalla festa per il battesimo a quella per gli ottant’anni. Con l’auto di Emanuele Lamaro (Carlo bambino) e di Andrea Occhipinti (Carlo ragazzo), Vittorio Gassman ricostruisce la vita di un uomo e della sua famiglia, tracciando un quadro delle problematiche che si susseguono dal 1907 al 1987 e del cambiamento delle abitudini nella media borghesia italiana. Professore di italiano, Carlo vive sempre nello stesso appartamento del Quartiere Prati, in cui si dipanano intricate relazioni familiari, sullo sfondo della Storia. L’interpretazione di Gassman, pacata e composita, non priva di accenti autobiografici, rivela ancora una volta la sua grande perizia drammaturgica, messa in rilievo dalla capacità di Scola di tenere le fila di una complicata rete di personaggi e vicende.

Questi i film da vedere o rivedere, per ricordare (e rimpiangere) un grande attore quale era Vittorio Gassman. 

 

 


 

21 giugno 2020

ECLISSI SOLARE

15 febbraio 1961: la prima eclisse mediatica

 

Le eclissi – si sa – hanno sempre colpito l’immaginazione degli uomini, sin dalla più remota antichità. Erano una sorta di spettacolo meraviglioso e ispiravano leggende e, soprattutto, premonizioni di sventure. In pochi minuti si passa in pieno giorno ad un buio pressocché totale, appaiono in cielo le stelle, il freddo penetra nelle ossa.  

Sebbene la loro origine abbia una razionale spiegazione scientifica, anche in epoca moderna le eclissi non hanno perso il loro fascino, siano esse lunari o solari. Lo stesso giorno del solstizio d’estate (altra ricorrenza stimolatrice di feste, miti e racconti), il 21 giugno, in questo anno fuori dall’ordinario, possiamo godere dello spettacolo di un’eclisse solare ad anello di fuoco. Non è facilmente visibile dall’Italia (solo parzialmente dalle regioni del Sud), ma sarà sicuramente riprodotta infinite volte sugli schermi televisivi e web di tutto il mondo.

La prima eclisse dell’epoca moderna a godere di una vasta eco mediatica alla radio e in televisione, in Italia, fu quella del 15 febbraio 1961: per permetterne la visione, si entrò a scuola e al lavoro più tardi, soprattutto nell’Italia centro settentrionale (dalla Liguria alle Marche) dove il fenomeno, che iniziò attorno alle 8,30 e durò quasi 3 minuti, era totale. Nel resto d’Italia l’eclisse fu parziale, ma con percentuali di sovrapposizione molto alte. Luoghi ideali per la visione furono considerati il passo dei Giovi in provincia di Genova e il monte Conero nei pressi di Ancona, dove si ritrovarono molti astrofili e astronomi tra cui Margherita Hack, che ne scrisse anni dopo, considerandola un’esperienza indimenticabile anche perché il fenomeno si rispecchiava sul mare. Era il mercoledì delle Ceneri, coincidenza fortemente simbolica, ma era anche febbraio e questo preoccupava gli scienziati perché nuvole e nebbia potevano impedirne la visione. E in qualche luogo fu così. Il direttore dell’osservatorio astronomico di Bologna, Guido Horn D’Arturo, studioso rinomato di eclissi e fondatore dell’Osservatorio di Loiano, organizzò un volo speciale con un bimotore C119, concesso gratuitamente dal Ministero della Difesa, cui erano stati tolti i portelloni di coda per agevolare l’osservazione. Sul velivolo salirono una trentina di studiosi, rivestiti di tute termostatiche, che seguirono il fenomeno a tremila metri di altezza senza l’ostacolo delle nuvole.

Anche il cinema ne approfittò: a Cinecittà infatti si girava il kolossal Barabba, diretto dal regista di Ventimila leghe sotto i mari e dei Vichinghi Richard Fleischer. Tratto dal romanzo di Pär Lagerkvist (1950), il film racconta la storia di Barabba, il malvivente che, graziato dal popolo a sfavore di Gesù, diventa un assassino e dopo la condanna diventa cristiano, morendo anch’egli sulla croce. Rifacendosi alle pagine dei Vangeli (non supportate dalle verifiche astronomiche), si attribuì all’eclisse il buio che a lungo oscura il Golgota, il giorno della morte di Gesù. Si approfittò del buio creato dall’allineamento tra Luna e Sole per girare la scena della Crocifissione a Roccastrada, in provincia di Grosseto. Vedendo Barabba, è dunque possibile rivivere quei momenti che tanto avvinsero l’Italia. Il film era prodotto da Dino De Laurentiis, prossimo a costruire Dinocittà (sui cui terreni furono effettuate molte delle riprese), ed esperto di film epici. Il ruolo del protagonista fu affidato ad Anthony Quinn, indimenticabile protagonista di La strada di Federico Fellini, e al suo fianco, nel ruolo di Rachele, recitò Silvana Mangano, allora contesa dai migliori registi italiani e moglie del produttore napoletano.

Tale fu l’eco di quell’eclisse che nel 1993, Leone Pompucci (giovane regista al suo esordio con una sceneggiatura che aveva vinto il Premio Solinas) dirige Le mille bolle blu (1993), in cui si intrecciano le storie degli abitanti di un condominio romano del quartiere Prati nei giorni dell’eclisse del 1961 (anno di nascita del regista), spostata da febbraio a più scenografici giorni estivi. Nei due giorni in cui si svolge l’azione filmica, i protagonisti, attentamente osservati da Sandrino, il bambino che collega tutti i fili del racconto, vivono avvenimenti determinanti per il loro futuro (e che secondo alcuni critici profetizzano i mali italiani degli anni che seguono) e aspettano di vedere lo spettacolo dell’eclisse, preannunciato da radio e televisione. Un momento di pausa nel buio che si diffonde in pieno giorno, prima che la vita riprenda il suo inevitabile corso. Il film prende il titolo e usa nella colonna sonora la popolare canzone portata al successo da Mina nel Festival di Sanremo di quello stesso 1961.

L’anno seguente Mina incide L’eclisse twist, una canzone scritta da Michelangelo Antonioni su musica di Giovanni Fusco, il compositore prediletto dal regista per i suoi film. Il brano accompagnerà alcune inquadrature di un film anch’esso collegato all’eclisse del 15 febbraio 1961: L’eclisse, interpreti Monica Vitti e Alain Delon. Il regista ferrarese aveva filmato il fenomeno da un colle nei pressi di Firenze, pensando di utilizzarlo in un film. Così commentò la visione: "Gelo improvviso. Silenzio diverso da tutti gli altri silenzi. Luce terrea, diversa da tutte le altre luci. E poi buio. Immobilità totale". In realtà non servirsi delle sue riprese, preferendo alludervi nel finale e affidandosi soprattutto ai significati simbolici e metaforici di quello spettacolo che aveva coinvolto l’Italia intera, come mostra, con toni diversi, il film di Pompucci. Così l’eclisse del titolo è quella dei sentimenti che attanaglia la protagonista, Vittoria, che nella prima sequenza lascia il maturo fidanzato e cerca invano di rivivere nella sterile storia con Piero, un giovane incontrato nella frenetica Borsa romana. Le vicende hanno come sfondo la parte costruita nel dopoguerra del quartiere dell’Eur, frutto di una moderna elaborazione architettonica negli ultimi anni del fascismo e per questo assai poco amato negli anni Sessanta. Un ambiente con cui si identifica la disorientata Vittoria, una delle figure femminili su cui si impernia il percorso della trilogia antonioniana sull’incapacità di comunicare caratteristica della modernità, che include, oltre a questo film, L’avventura e La notte.

 

 


 

16 giugno 2020

HITCHCOCK, PSYCHO, IL PAPPAGALLO

 

Il 16 giugno 1960 per la prima volta fu presentato al pubblico “Psycho”, durante una anteprima che si svolse al cinema DeMille, all’angolo tra la Seventh Avenue e la 47th Street. Hitchcock aveva imposto che nessuno fosse ammesso in sala dopo l’inizio del film e questa regola fece sensazione (all’URL https://youtu.be/DjRzj_Ufiew le avvertenze in merito del regista). Il film venne proiettato contemporaneamente e con le stesse regole in un’altra sala della stessa proprietà, il Baronet, tra la 59th Street e la 3rd Avenue. Gli incassi furono strabilianti, come fanno presagire le lunghe code per entrare. Il segreto sulla trama era stato accuratamente custodito e, contrariamente al solito, non vi era stata nessuna proiezione per la stampa. Il critico del New York Times, Bosley Crowther, lo vide in sala con il pubblico e il suo giudizio, apparso sul giornale il 17, mostra alcune riserve sullo svolgimento del racconto e sulle sorprese hitchcockiane, mentre ammira incondizionatamente la recitazione degli attori.

Dopo altre proiezioni a Boston, Chicago e Philadelphia il 22 giugno e a Los Angeles il 10 agosto, la distribuzione del film nelle sale statunitensi avrà luogo solo dall’8 settembre di quello stesso anno. Hitchcock, di fronte allo scetticismo della Paramount per un film a basso costo e in bianco e nero, aveva finanziato personalmente la produzione con la sua Shamley Productions e aveva effettuato le riprese con la troupe televisiva di “Alfred Hitchcock presents” negli studios della Universal, dove ancor oggi su può visitare la casa dei Bates, ispirata alla "House by the Railroad" dipinta nel 1925 da Edward Hopper. Curò quindi la campagna pubblicitaria, puntando sul fatto che non fosse rivelato nessun particolare dei colpi di scena della trama. Arrivò a vietare a Janet Leigh e Anthony Perkins, gli attori protagonisti, di apparire in tv o di essere intervistati per la stampa.

Alla fine di settembre Hitchcock si sposta in Italia, sia per promuovere il suo film, sia per passare qualche giorno al Grand Hotel Villa d’Este di Cernobbio, sul lago di Como, luogo che conosce fin dal 1924, quando cercava con l’allora fidanzata Alma Reville le location per il suo film d’esordio The Pleasure Garden (Il labirinto delle passioni) e dove amava soggiornare, pretendendo di non essere riconosciuto. A Roma incontra i giornalisti e, sullo sfondo di Castel Sant’Angelo, rilascia una intervista per la RAI a Carlo Mazzarella, (https://www.youtube.com/watch?v=gSQUHdHDT5g).

Nel soggiorno italiano è compresa anche una scappata a Bologna. Meta della gita è l’allora celeberrimo ristorante Al Pappagallo, dove viene accolto dai fratelli Zurla, la cui fama ha raggiunto gli Stati Uniti e il resto del mondo. Il gourmand Hitchcock voleva assaggiarne la cucina considerata tra le tre migliori del mondo, fedele alla sua dichiarazione: “L’uomo non ha bisogno soltanto di delitti, ha bisogno anche di pasti abbondanti”. Ne approfitta anche per visitare la Mostra dell'Etruria Padana e della città di Spina, al museo Archeologico, dove Walter Breveglieri lo immortala in ironiche foto.

Hitchcock si gode la vacanza italiana (il 12 ottobre farà una corsa in go-kart a Milano) anche se le anteprime di “Psycho” hanno avuto recensioni poco benevole da parte dei critici americani e inglesi. Il film sarà invece un successo, facendo guadagnare a Hitchcock/produttore milioni di dollari e raggiungendo un indiscutibile statuto di capolavoro. Girato negli studi Universal, il film trasferiva sullo schermo l’omonimo romanzo di Robert Bloch, prolifico autore che aveva venduto i diritti cinematografici per soli 9.500 dollari a uno sconosciuto acquirente, dietro cui si nascondeva il noto regista.  

Il film segna il passaggio di Hitchcock dal mistery (sia pure inteso in maniera estremamente personale) al thriller. In “Psycho” il regista gioca con l’effetto sorpresa (gli occhiali scuri del poliziotto, l’apparizione della mummia), con il ritmo incalzante (l’accoltellamento sotto la doccia di 45 secondi si compone di 40 inquadrature) e con le allusioni, sparse nel corso del film (l’edificio gotico sulla collina, gli uccelli imbalsamati di Norman). Nella famosa intervista a François Truffaut “Il cinema secondo Hitchcock” disse del film: «In “Psycho” del soggetto mi importa poco, dei personaggi anche; quello che mi importa è che il montaggio dei pezzi del film, la fotografia, la colonna sonora e tutto ciò che è puramente tecnico possano far urlare il pubblico. Credo sia una grande soddisfazione per noi utilizzare l’arte cinematografica per creare una emozione di massa. E con “Psycho” ci siamo riusciti. […] Quello che ha commosso il pubblico è stato il film puro.».

 

 


 

12 giugno 2020

GIORNATA MONDIALE CONTRO IL LAVORO MINORILE

 

La Giornata mondiale contro il lavoro minorile richiama l’attenzione su un tragico problema che nel mondo riguarda più di 15 milioni di bambini, maltrattati e abusati, privati degli elementari diritti all’istruzione e al gioco. La povertà toglie loro ogni possibilità di vita normale. Di questo sfruttamento e della lotta coraggiosa per affrancarsene è diventato emblema Iqbal Masih, il bambino operaio (poi sindacalista) pakistano, ucciso dalla “mafia dei tappeti” nel 1995, a soli 12 anni, perché si era ribellato al sistema schiavistico di cui era diventato vittima. La sua richiesta di libertà per gli altri bambini aveva avuto una eco mondiale.

Il cinema non poteva ignorare la sua storia: nel 1998 Cinzia Th. Torrini dirige Iqbal, un tv movie (sceneggiato tra gli altri da Andrea Purgatori), che riprende i momenti salienti della tragica vicenda umana della giovanissima vittima, avvalendosi di attori pakistani. Un maggiore successo arride a un film d’animazione del 2015, Iqbal - Bambini senza paura diretto da Michel Fuzellier e Babak Payami, che trae spunto dal romanzo Storia di Iqbal di Francesco d'Adamo. Il film parte dalla ricerca dei soldi per pagare le medicine al fratellino ammalato e prosegue incentrandosi sulle condizioni di schiavitù nella fabbrica di tappeti dove si sfruttano i bambini sia per l’agilità delle loro piccole dita sia per la possibilità di non retribuirli. I tappeti vengono così esportati a basso costo nei paesi occidentali. Iqbal tenta di ribellarsi, ma viene incatenato al suo posto di lavoro. La presa di coscienza dei suoi diritti finisce per coinvolgere anche i suoi piccoli compagni di sventura. La produzione italo-francese ha avuto il supporto dell’UNICEF, per il valore educativo del suo racconto.   

Un altro film d’animazione che tratta del lavoro minorile, oltre che dei problemi di genere nella società islamica, è I racconti di Parvana (2017) diretto da Nora Twomey e tratto dal bestseller “Sotto il burqua” di Deborah Ellis. Al centro del film che recupera con grande raffinatezza la tecnica tradizionale del disegno animato, sta il coraggio di Parvana, una ragazzina il cui padre viene imprigionato nell’Afghanistan dominato dai talebani. Per sfamare la sua famiglia, deve continuare il lavoro del padre al mercato: le bambine non possono e indossa abiti maschili. Prodotto da Angelina Jolie, il film recupera canovacci narrativi orientali ben noti, come il dipanarsi delle storie raccontate da una donna, per immergerli in una contemporaneità dove la fame e l’intolleranza costringono a una quotidiana lotta per il cibo. Una fiaba magnificamente illustrata per adulti e bambini.

Nell’Europa dell’Ottocento, con il diffondersi delle prime industrie e dell’aumentata povertà nelle metropoli, il lavoro minorile era diffusissimo. Se ne trova abbondante traccia nei romanzi di Charles Dickens, in Oliver Twist in particolare. Il romanzo dal 1906 ha avuto molte trascrizioni cinematografiche, televisive e teatrali (come il musical Oliver! del 2009). Qui segnaliamo la versione del 2005 di Roman Polanski, in cui emerge un risvolto autobiografico: nelle vicende tormentate di Oliver, il regista rivive la propria adolescenza nella Polonia occupata dai nazisti, dopo la deportazione dei genitori nei campi di concentramento. La denuncia delle ipocrisie dell’Inghilterra vittoriana si accompagna alla descrizione degli abusi perpetrati sull’infanzia, tra cui il lavoro minorile (di cui era stato vittima lo stesso Dickens a 12 anni), sfruttato biecamente negli orfanatrofi. Polanski sceglie per il suo racconto filmico uno stile classico, ordinato, ricostruendo negli studi di Praga la Londra ottocentesca, avvolta nella pioggia e nella nebbia, fedele alle illustrazioni create per il libro da Gustave Doré e citate nei titoli di testa. Un Polanski che illustra Dickens e che, affascinato dalla storia, rinuncia al suo piglio personale. 

Se volgiamo lo sguardo all’Italia, le storie filmiche descrivono lo sfruttamento dei bambini come un problema del passato, che però sappiamo non essere ancora completamente sparito nelle zone dove permangono sacche di povertà. Gli ultimi (1963) di Vito Pandolfi è ambientato all'inizio degli anni '30 in un paesino della bassa friulana e indaga l’universo contadino, dove il lavoro minorile è norma quotidiana. Il protagonista, Checo, al mattino segue le lezioni a scuola e al pomeriggio deve andare al pascolo, per dare un aiuto ai familiari, poveri contadini. Il soggetto era tratto dal racconto autobiografico di padre David Maria Turoldo, Io non ero un fanciullo, dove descriveva le esperienze della sua infanzia. Vito Pandolfi era docente universitario di Storia del teatro e il film fu la sua unica esperienza cinematografica. A lungo negletto, Gli ultimi è stato ora riscoperto e rivalutato.

Il film più noto sull’argomento è sicuramente Padre padrone (1977) di Paolo e Vittorio Taviani, vincitore della Palma d’oro al festival di Cannes. Il film era stato prodotto dalla RAI per la propria programmazione, ma l’invito al festival francese ne mutò la destinazione. Padre padrone era l’adattamento dell’omonimo romanzo autobiografico di Gavino Ledda, che, affrancandosi dal padre e dalle abitudini ancestrali della sua isola, da analfabeta era diventato ricercatore universitario di glottologia. A soli 6 anni era stato costretto ad abbandonare la scuola per governare il gregge in pascoli desolati, lontani dal mondo civile e privi di figure umane. Una vita quasi animalesca che viene raccontata dai Taviani in tutta la sua asprezza, così come il doloroso contrasto con il dispotico padre (un grande Omero Antonutti). Il servizio militare è l’occasione per uscire dall’isolamento dell’analfabetismo e della conoscenza del solo dialetto. Un film grezzo e duro, un appello accorato alla soppressione dello sfruttamento infantile e in favore del diritto all’istruzione dei bambini.

 

 


 

5 giugno 2020

GIORNATA MONDIALE DELL'AMBIENTE

 

Nella Giornata mondiale dell’Ambiente ci si può chiedere come il cinema abbia fatto proprie le istanze ambientaliste espresse in modi molto diversi dai movimenti. A distanza di tempo, possiamo considerarle efficaci almeno a livello di opinione pubblica, data la diffusa consapevolezza della necessità di un cambiamento e di enormi interventi. Il pericolo rappresentato dall’esaurimento delle risorse del nostro pianeta è stato più volte al centro del cinema di fantascienza, un genere di cui abitualmente si sottovaluta l’aderenza a contemporanee problematiche universali. Più volte la science-fiction ha immaginato le condizioni di vita dell'umanità dopo una prolungata carenza di rispetto per le leggi naturali e dopo la distruzione delle condizioni per una vita sostenibile, a volte elaborando anche contromisure. Questo avviene a partire dagli anni Settanta, anni in cui per la prima volta si diffondono su più larga scala le teorie ecologiste.

Il primo film che incontriamo è 2002: la seconda odissea (1972) di Donald Trumbull: sul pianeta Terra tutta la flora si è estinta dopo una guerra nucleare e dopo la scelta di far prevalere la tecnologia nella vita quotidiana. Si sono salvati solo alcuni esemplari conservati in serra, su stazioni spaziali che fluttuano vicino all'orbita di Saturno. Le serre sono affidate alle cure di Freeman Lowell (Bruce Dern), astronauta/guardia forestale, che quando gli viene ordinato di distruggere l'ultima vita vegetale della Terra, si ribella e uccide gli altri rangers per impedire la demolizione delle cupole. Poi sacrificherà la sua vita per consentire all'ultima cupola di continuare il viaggio nello spazio con piante e animali teneramente assistiti da un drone.

Sottilmente ispirato alla cultura hippy, il film, sceneggiato dal futuro regista Michael Cimino, con D. Washburn e S. Bochco, è diretto da Donald Trumbull, già creatore degli effetti speciali di 2001, Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. L’ambientalismo è enfatizzato e reso affascinante dalle scene idilliache che raffigurano le ultime foreste sopravvissute, in netto contrasto con il mondo tecnologico terrestre. L'ecologia tende a fondersi con un "ribellismo" convenzionale che oggi può apparire obsoleto. Come nel film di Kubrick, predomina la paura della tecnologia e dalla fantascienza degli anni ’50 e ‘60 si eredita l'ossessione delle armi nucleari, identificate come l'elemento che distruggerà la natura.

Blade Runner (1982), diretto dal visionario Ridley Scott e adattato dal romanzo di Philip K. Dick "Do Androids Dream of Electric Sheep?", introduce nel genere fantascientifico il tema dell'inquinamento atmosferico. In una oscura e post-apocalittica Los Angeles del 2019 è impossibile vedere il sole: il pianeta è diventato inabitabile, in uno stato di degrado ecologico e decadimento industriale. La maggior parte della vita animale è stata sterminata dal cambiamento climatico ed è possibile avere solo copie artificiali. Gli umani che se lo possono permettere sono costretti a ritirarsi nelle "colonie fuori dal mondo", dove i robot chiamati replicanti, visivamente identici agli umani, fabbricati dalla potente Tyrell Corporation, sono utilizzati per lavori umili o pericolosi. La Terra è invece loro vietata. Il protagonista, Rick Deckard (Harrison Ford), esperto, ma riluttante “blade runner” (ovvero addestrato a ricercare i replicanti) è incaricato di dare la caccia a un combattivo gruppo di androidi fuggiti da una colonia. L'inseguimento permetterà a Rick di conoscere l'amore ma insinua in lui anche il dubbio di essere un replicante. Le immagini del film fanno largo uso del contrasto simbolico tra oscurità e luce, alto e basso, che diventa sintassi visiva del tema del film. L'inquinamento oscura tutto: nello skylight di Los Angeles sembrano sorgere solo grandi fasci di luce dalla sede di Tyrell, un gigantesco grattacielo a forma di piramide (simile a un monumento azteco o dell’antico Egitto, ma anche ai grattacieli di Metropolis, il film di Fritz Lang del 1927 dove i ricchi vivono in superficie e gli operai nell'interno oscuro della Terra). La piramide è vista come un'icona di assolutismo e potere supremo. Alla fine della versione del 1982, Rick fugge con Rachel (un replicante sperimentale), guidando un avveniristico veicolo in un idilliaco paesaggio, pieno di luce. La versione director’s cut del 1992, invece, cancella questa scena e il film termina nell'appartamento di Rick, con i dubbi sulla data di scadenza di Rachel e sull’identità umana di Rick.

Le tenebre, le ombre e la pioggia caratterizzavano un altro genere cinematografico: il film noir degli anni ‘40. Ridley Scott ibrida i due generi, non solo nella dinamica visiva, ma anche per le atmosfere e la suspense, creando una versione futuristica dello stile del film noir. Ma nella Los Angeles del 2019, non esiste più nulla di naturale e la città è meccanica e inquinata. Come in 2002: la seconda odissea, tutte le risorse naturali sono state sfruttate. Il pessimismo sulla società tipico del film noir evolve in un atteggiamento negativo nei confronti dell’inquinamento: il destino del pianeta è distruggere la natura e cadere nell'oscurità. Nel futuro distopico di Scott non c'è nessuna speranza per il futuro. Il che riflette il pensiero ecologista degli anni Ottanta, quando la consapevolezza del pericolo era ancora troppo poco diffusa.

Al contrario, in Avatar (2009) James Cameron trasporta lo spettatore in una fiaba in cui il lontano pianeta di Pandora è il compendio di un mondo naturale e intatto, con foreste lussureggianti (senza città e strade), rispettato e venerato dai suoi abitanti, i Na 'vi, versione moderna dell'ideale di Rousseau del nobile selvaggio. Sull'altro versante gli umani sono avidi, crudeli, senza scrupoli e feroci. La storia si basa su una visione del mondo manichea: non è un caso che Avatar possa essere letto anche come una metafora del colonialismo occidentale. Cameron opta per il lieto fine: il suo eroe lascia la Terra e inizia un'altra vita a Pandora. Il mondo immaginario su Pandora ha connessioni con l'ecologia profonda e l'ipotesi Gaia: entrambe suggeriscono che i costituenti fisici della Terra e la biosfera sono strettamente collegati in un complesso, interrelato sistema. Quel mondo rispecchia la diversità, l'integrità e la completezza di un’ecologia sana e terrestre.

Se Blade Runner è immerso nel buio, in Avatar i colori della natura hanno il sopravvento: verde, giallo, arancione e soprattutto blu, in diverse tonalità. Anche la pelle di Na’vi è blu. È il colore del cielo e del mare, metaforicamente il colore della purezza. Gli abitanti di Pandora vivono in simbiosi con la natura, mentre le popolazioni della Terra hanno esaurito tutte le risorse naturali: il contrasto è simboleggiato dai colori (grigio per gli umani) e dalla tecnologia (gigantesche ruspe e colossali macchine da miniera). La sintassi visiva di Cameron fa appello ai colori per evidenziare la differenza tra l'atteggiamento dei Na’vi e quello degli invasori. La tecnologia della cinepresa 3D contribuisce a creare nel pubblico non solo empatia con i personaggi ma anche identificazione. Avatar è un film di intrattenimento, un veicolo di cultura popolare, ma è stato motivo di riflessione per milioni di spettatori: contiene alcuni dei più avvincenti messaggi ecologici mai rivolti a un pubblico di massa in un film di fantascienza. Più dei due film analizzati in precedenza, seduce gli spettatori e supporta la più sensibile comprensione ecologica del mondo naturale.

 

 


 

2 giugno 2020

FESTA DELLA REPUBBLICA

 

Quest’anno forzatamente le celebrazioni della Festa della Repubblica devono fare i conti con il lockdown. Nella drammaticità della situazione però si è trovata una soluzione felicissima grazie alle esibizioni in tutta Italia delle Frecce tricolori, la pattuglia acrobatica dell’Aviazione, considerata la migliore nel mondo e frutto della nostra capacità di dare il meglio quando sono richieste perizia e meticolosità, competenze scientifiche e audacia. Per di più, al contrario della parata, il volo non presta il fianco a equivoci bellicistici. Il tricolore che proviene dagli aerei è la rappresentazione, ad un tempo fisica e simbolica, della nazione e implica il ricordo non retorico delle diverse lotte che dall’Ottocento hanno portato il 2 giugno 1946 alla scelta della Repubblica. Il voto di allora non chiedeva soltanto di esprimersi sul referendum e sui componenti dell’Assemblea costituente, ma portava alle urne per la prima volta anche le donne. Inoltre, dopo molto tempo, era stato preceduto da una regolare campagna di propaganda elettorale.

Curiosamente il cinema non ha dedicato nessun film a questo momento fondamentale della nostra storia: si ricorda sempre e solo la scena del film di Dino Risi, Una vita difficile (1961), dove il protagonista (Alberto Sordi), ospite di un’aristocratica romana pur di mangiare un piatto di pasta, non riesce a trattenere la sua felicità all’annuncio dei risultati alla radio, mentre attorno gli altri commensali prendono coscienza della fine del mondo cui appartengono.

Il voto tuttavia, nonostante i felici cambiamenti che apporta (compresa l’attività dell’Assemblea costituente), non risolverà tutti i problemi. Se il cambiamento istituzionale è immediato, la trasformazione della società è molto più complicata. Restano problematiche irrisolte che si trascinano negli anni, di cui troviamo analisi e resoconti nel cinema posteriore, in particolare in quello degli anni 70.

Per prima cosa si deve parlare della condizione femminile in una società che continuava a rimanere sostanzialmente patriarcale con una legislazione che a questo corrispondeva.

Allora vale la pena di visionare un film dimenticato di una attrice, sceneggiatrice e regista bolognese, Elda Tattoli: Pianeta Venere (1974). La pellicola racconta la vita di Amelia, bambina durante la guerra, che dapprima sembra adeguarsi agli stereotipi femminili del tempo, dedicandosi completamente a un uomo, ex-partigiano e funzionario del Partito Comunista, fino a donargli un occhio. In seguito, presa coscienza dei suoi diritti, si ribella, aderendo ai movimenti femministi. Elda Tattoli, più nota per la collaborazione con Marco Bellocchio e l’interpretazione di “La Cina è vicina”, redige un atto di accusa verso la società italiana, e in particolare alla classe politica di sinistra, incapace di fare propria una visione moderna del ruolo della donna.

La casta politica che succede a quella fascista rimane anch’essa legata a una concezione vecchia e conformista dei propri compiti, mentre la società, sia pure lentamente, cambia e acquista caratteri di modernità. Lo scontro è inevitabile e finisce per avere effetti devastanti su chi detiene il potere. Di queste convulsioni dà conto nel 1976 Elio Petri in Todo Modo, film tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia. Il registro del grottesco guida il ritratto di politici, industriali, banchieri e dirigenti d’azienda, tutti appartenenti al partito che da 30 anni guida il paese, riuniti, durante un’epidemia, in un albergo-eremo per una nuova spartizione del potere. Il film, aggressivamente satirico, si chiude con la morte di tutti i partecipanti, dopo aver messo in luce il processo di autodistruzione di una intera classe dirigente (quella democristiana) di fronte alle proprie contraddizioni e allo scollamento con la società.

L’anno precedente anche Francesco Rosi si era rivolto a Sciascia, trasportando sullo schermo “Il contesto” con Cadaveri eccellenti, che adotta un registro quasi metafisico per descrivere l’ambiguità del potere e sottolineare l’impossibilità di scoprire la verità. La vicenda prende spunto dall’uccisione di alti magistrati palermitani. Dell’indagine viene incaricato l’ispettore Rogas (Lino Ventura) che si rifiuta di indagare solo sugli ambienti di estrema sinistra, come suggeritogli dai superiori. La sua uccisione e quella del segretario del Partito Comunista, cui voleva rivelare le sue scoperte su una trama eversiva di gruppi di potere, passano sotto silenzio, per la scelta rinunciataria del partito di sinistra.

Ancora nel 1975, Silvano Agosti, cineasta di valore, anomalo e appartato, nel documentario Festa della Repubblica sembra operare una sintesi delle perplessità che serpeggiano nel paese sui risultati del percorso iniziato il 2 giugno 1946. Le immagini delle pompose celebrazioni della Festa della Repubblica sono montate in contrapposizione alla solitudine di un anziano, esponente simbolico di quegli elettori del 1946, le cui speranze sono state deluse.

 

 


 

31 maggio 2020

GIORNATA MONDIALE SENZA TABACCO

 

Oggi, 31 maggio si celebra la Giornata Mondiale Senza Tabacco (World No Tobacco Day), un invito per chi fuma a non prendere tra le dita neppure una sigaretta, dati gli effetti negativi sulla salute e sull’ambiente. Dal 1988 la ricorrenza, promossa dall’OMS, è anche l’occasione per fare il punto sulla situazione mondiale con la pubblicazione di statistiche ben articolate, di aggiornamenti sui tumori derivanti da fumo e le relative cure, dei metodi per smettere di fumare. Quest’anno il focus è sui giovani, troppo dediti al fumo in tutto il mondo, ma ancora in tempo per fermarsi. Agli adolescenti devono essere forniti gli strumenti necessari per riconoscere e respingere le varie tattiche che l’industria del tabacco mette in atto per manipolarli.

Il cinema ha avuto e ha un rapporto cospicuo con il fumo, nel male e nel bene. Il modo di dire non è invertito per caso, data la prevalenza di messaggi negativi delle immagini filmiche: la diffusione mondiale del fumo si è appoggiata considerevolmente sul cinema, che anche oggi esercita una notevole influenza soprattutto sugli adolescenti.

Sin dalle origini della fiction, nel primo decennio del ‘900, i protagonisti fumavano appassionatamente e l’atto di accendersi una sigaretta era tra i più abituali delle storie raccontate sullo schermo. Cosa sarebbero stati senza le sigarette i personaggi interpretati nel 1942 dall’enigmatico Humphrey Bogart nel film di John Huston Il mistero del falco o nel più noto Casablanca di Michael Curtiz? O, per quanto riguarda l’Italia, nella Grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino quanto perderebbe la caratterizzazione di Jep Gambardella (Toni Servillo) senza la sigaretta che pende dalle labbra, accentuando il suo coté cinico? Il rilievo vale anche per Robert Mitchum e moltissimi altri divi americani dagli anni ‘30 fino agli anni ‘60. Tra il 1927 e il 1951 la American Tobacco Company ha avuto a libro paga più di 200 divi del cinema: da Clark Gable a Cary Grant, da Spencer Tracy a John Wayne, da Bette Davis a Joan Crawford, fino a grandi fumatori come Marlene Dietrich e Humphrey Bogart. Per quanto riguarda le dive, la sigaretta aiuta spesso a sottolineare la loro disinibizione e la capacità seduttiva, come mostra esemplarmente la Rita Hayworth di Gilda (1946). Ma altri e più efficaci sono i messaggi che il cinema trasmette, come quello che fumare una sigaretta allevia lo stress e, soprattutto per gli adolescenti, è un segno di indipendenza, oltre che un’occasione di divertimento.

In Italia il divieto di pubblicità dei prodotti da tabacco nei film è in vigore dal 10 aprile 1962: niente pacchetti quindi, e niente marchi. Ma ogni volta che si è tentato di introdurre il divieto di fumo (ovvero di far fumare i personaggi), anche solo nei film non vietati agli adolescenti, il mondo del cinema italiano si è sollevato, facendo proprie le pressioni delle lobbies del tabacco, che evidentemente influiscono sui finanziamenti produttivi.

Le leggi italiane sul fumo sono invece spesso all’avanguardia, Nel 1972, su direttiva CEE, è vietata la pubblicizzazione dei prodotti per fumatori. Dall’11 novembre 1975 entra in vigore il divieto di fumo sui mezzi di trasporto pubblico, con carrozze riservate ai fumatori, e in alcuni locali pubblici (ospedali, cinema, teatri, musei, università e biblioteche), anche se non sempre è rispettato. Dal 1991 su ogni prodotto da fumo compare la scritta a caratteri cubitali il fumo è nocivo. L’ultimo passo è la cosiddetta legge Sirchia, dal nome del ministro della Sanità che l’ha fortemente voluta, che nel 2003 stabilisce che “è vietato fumare nei locali chiusi, ad eccezione di quelli privati non aperti ad utenti o al pubblico”. 

Se da anni gli schermi cinematografici di tutto il mondo mostrano meno fumatori è solo per soddisfare la diversa sensibilità del pubblico, ormai consapevole dei danni arrecati dal fumo, a lungo negati dall’industria del tabacco. Sensibilità che pare si stia attenuando visto l’aumento di sigarette fumate sugli schermi soprattutto statunitensi, nonostante se ne conoscano gli effetti esiziali.

Sulla tematica dell’occultamento di questi effetti, nel 1999 il regista Michael Mann realizza un felice esempio di cinema civile: Insider- Dietro la verità dove racconta la storia vera di un chimico (Russell Crowe), dipendente di una multinazionale del tabacco, che nel 1996 aveva rivelato che esistevano le prove dei nefasti effetti del tabagismo e che fino ad allora erano state accuratamente occultate dalla potente lobby del tabacco. L’industria tenta di screditarlo con ogni mezzo possibile, ma alla fine la verità trionfa.

Negli Stati Uniti la lotta contro il tabacco aveva registrato una prima vittoria nel 1964, con un report del Surgeon general's advisory committee in cui si metteva in evidenza la correlazione fra fumo e cancro. Si imposero per legge le diciture di avviso sui pacchetti e il divieto di fare pubblicità, divieto che le multinazionali aggirarono con forme alternative di promozione, creando ditte di abbigliamento e sponsorizzando manifestazioni sportive (ad esempio la Formula 1).

Anche nei film europei le cose non vanno meglio: un rapporto dell’Oms del 2014 mette in evidenza come i film più visti in Francia, Germania e Italia tra 2010 e 2013 mostrano attori che fumano in percentuali molto elevate.

Due film in particolare possono essere proiettati agli adolescenti per smascherare i procedimenti persuasivi legati al mondo del fumo (e non solo),

Nel 2005 Jason Reitman dirige Thank You for Smoking, portando sullo schermo l’omonimo romanzo di Christopher Buckley. Il protagonista Nick Naylor si occupa dell’Accademia degli Studi della Big Tobacco e ha l’incarico di difendere i diritti dei fumatori e delle aziende che producono le sigarette. Lo fa affidandosi soprattutto all’arte della persuasione e al potere seduttivo del mondo del cinema: ingaggia un agente hollywoodiano per inserire scene di fumo nei film. Una giornalista lo sedurrà per carpirgli le notizie e fare uno scoop, ma non per questo Nick (personaggio negativo ma con aspetti simpatici) smetterà di fare il suo “sporco” lavoro: in una scena ci dice esplicitamente quanta sensualità, trasgressione e tensione, può nascere da una sigaretta tra le labbra di un personaggio. Nel film non si vede mai fumare una sigaretta.

Specificamente concepito per un’audience giovanile è invece The Answer. La risposta sei tu (2015) di Lorenzo Fremont, prodotto dalla Fondazione il Sangue di Milano. Un gruppo di giovani decide di passare qualche giorno di vacanza al lago di Punta Canneto, ma la permanenza prende una piega drammatica. Realizzato per essere uno strumento di lavoro nelle scuole per la prevenzione del tabagismo, è a disposizione di tutti sul web (http://www.fondazioneilsangue.com/the-answer/) ed è dotato di una versione interattiva a fini didattici.

 

 


 

23 maggio 2020

IL GUSTO DELLA SALA

 

Vi manca la sala buia? Vi mancano gli schermi giganteschi in cui perdersi con gli occhi e con la mente? In questo periodo ci siamo resi conto come tante nostre abitudini cui non attribuivamo molta importanza fossero invece fondamentali, sia per l’appagamento culturale che per il nostro equilibrio psichico. Manca poco e potremo riprendere a farci avvolgere (e coinvolgere) nell’oscurità da immagini e storie. Intanto possiamo tentare di ritrovare le nostre sensazioni vedendo film che nelle sale cinematografiche sono ambientate, raccontandone la storia o individuando in essa il luogo ideale per una scena fondamentale. Ecco il nostro invito settimanale alla visione.

Il film mito sull’argomento è sicuramente L’ultimo spettacolo (1971) di Peter Bogdanovich, regista cinefilo. Ambientato all’inizio degli anni Cinquanta, nella provincia texana, e girato in un morbido e luminoso bianco e nero, è la storia (nostalgica con una vena di mestizia) di un gruppo di giovanissimi che sono alla vigilia della partenza per la cruenta guerra di Corea e che si ritrovano nella vecchia sala del paese, ormai incapace di reggere la sfida con la televisione e le nuove tecnologie. La sala chiude per la morte del proprietario, proiettando un western (Il fiume rosso di Hawks): per vederlo i giovani si riuniscono un’ultima volta, nonostante la mattina dopo debbano partire per la Corea.  Nel 1990 Bogdanovich realizza il seguito del film, Texasville, rifacendosi come per il primo a un romanzo di Larry McMurtry. Riunisce quasi tutti gli attori del primo film, ma l’operazione non ottiene il plauso né del pubblico né della critica.

Anche Nuovo cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore ripercorre il passato, quello italiano del dopoguerra, in una sala parrocchiale siciliana. L’abilità del regista nel ricostruire un’epoca e il lavoro del proiezionista in un piccolo cinema di paese è tale da toccare con mano come il cinema possa dare corpo ai sogni e a volte rivelare la sua essenza magica, come quando voltando la macchina di proiezione, le immagini finiscono sui muri circostanti e anche chi non ha potuto pagare il biglietto può godere dello spettacolo. Il sapore nostalgico del film (ma solo a tratti prevale la malinconia) e i tocchi di folclore sapientemente dosati, unitamente alle interpretazioni di Philippe Noiret e Salvatore Cascio, saranno fondamentali per l’assegnazione dell’Oscar al miglior film straniero.

La rosa purpurea del Cairo (1985) è il forse il film che più di ogni altro celebra il cinema come fabbrica dei sogni. Nel New Jersey del 1935, Cecilia (Mia Farrow), cameriera in uno squallido ristorante e sposata a un uomo manesco e infedele, per sfuggire alle pene della sua vita, appena può si rifugia in una sala cinematografica, dove vede più volte la stessa pellicola, La rosa purpurea del Cairo, finché un giorno il personaggio protagonista scende dallo schermo in platea per baciarla e poi trascinarla dentro il film. Cinema e realtà si scambiano i ruoli e Woody Allen conduce questo gioco di scambi con grande abilità e lievità di tocco, declinando il tema del cinema più consolatorio della vita e per questo forse più vero. L’immagine di Jeff Daniels che nei panni dell’esploratore scende dallo schermo è diventata un’icona, ispirando spot pubblicitari e molte allusioni filmiche.

Anche Wim Wenders, come Bogdanovich, con Nel corso del tempo (1975) sceglie di raccontare il momento di crisi delle sale cinematografiche tedesche alla fine degli anni Sessanta con una storia che mescola al tema del viaggio quelli dell’amicizia e dell’infanzia. Girato in un luminoso bianco e nero, il film segue le vicende di un riparatore di proiettori cinematografici nella provincia tedesca dei primi anni Settanta, dove, a dispetto di un glorioso passato, le sale sono ormai costrette a chiudere. Emblematico road movie del primo Wenders, il film è interpretato dall’attore feticcio Rüdiger Vogler e fu premiato a Cannes con il Premio della giuria.

Bastardi senza gloria (2009) di Quentin Tarantino è ambientato in Francia durante la IIa guerra mondiale e mescola dati reali con invenzioni del regista, che distorcono la Storia. Gli eventi più significativi della vendetta portata a termine da Soshanna, giovane ebrea che ha assistito allo sterminio della sua famiglia, avvengono nella sala cinematografica che la giovane ha ereditato a Parigi. Il cinema Le Gamaar sarà l’arma della sua rappresaglia, realizzata in parallelo a quella della brigata ebrea, protagonista anch’essa del film. La sala che prende fuoco e incenerisce Hitler e i gerarchi nazisti potrebbe anche essere la metafora del potere del cinema. Sottile ed efficace il lavoro compiuto da Tarantino sulle convenzioni del film di guerra.

Con la pandemia di Coronavirus è stata individuata una via d’uscita per gli spettacoli cinematografici nel drive-in, che negli anni Cinquanta godette di grandissimo successo negli USA. Un film come Grease (1978) di Randal Kleiser che rievoca la vita di un gruppo di studenti di un college in quegli anni, non poteva non ambientare nel drive-in alcune scene dei difficoltosi inizi della relazione tra Olivia Newton-John e John Travolta. Il film che scorre sullo schermo, nella notte davanti alle auto, è ovviamente solo un pretesto per tentare un approccio che non finisce bene. Così Travolta si ritrova solo a cantare il suo amore per Sandy, aggirandosi tra le auto. Tra gli americani c’è chi ancor oggi rimpiange il cielo stellato e l’infinità della notte che circondavano gli spettatori.

 

 


 

18 maggio 2020

GIORNATA INTERNAZIONALE DEI MUSEI

 

Crisi d’astinenza dopo più di due mesi senza musei né mostre? Quello che ormai era diventato per molti un passatempo abituale è stato negato dal confinamento e abbiamo dovuto accontentarci di visite virtuali. Per una strana coincidenza oggi 18 maggio riaprono molti dei musei italiani e si festeggia la Giornata Internazionale dei Musei (quest’anno sul tema: "Il museo per tutti: diversità e inclusione"). In attesa di poter entrare nelle sale preferite, viaggiamo con le immagini e grazie ai film visitiamo i musei del mondo: ci sono opere interamente dedicate o ambientate nei musei, ce ne sono altre (la maggioranza) dove vi si svolgono le scene chiave della vicenda raccontata.

 

PARIGI - LOUVRE

Tutti i musei più rilevanti arrivano sullo schermo, ma il Louvre è senz’altro quello cui vengono dedicate più attenzioni: la lista dei film sarebbe lunghissima. Se volete scoprire i segreti del più visitato museo del mondo affidatevi al documentario di Nicolas Philibert (regista del garbato “Essere e avere”) La città Louvre, che, grazie alla sezione audiovisivi della casa editrice #Umberto Allemandi, è stato sottotitolato ed è visibile all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=72VIVp3_wF4Le vicende di Francofonia (2015) di Aleksander Sokurov si svolgono interamente nelle sale del Louvre: varie epoche si susseguono, attraverso la presenza dei loro personaggi simbolo (vedi Napoleone), in un racconto surreale che parte dall’occupazione nazista e dal tentativo di Hitler di impadronirsi delle opere d’arte del museo. Il motto della Rivoluzione (Liberté, Égalité, Fraternité) percorre il film, quasi in contrapposizione alle voglie del potere. Forse però la sequenza filmica più amata dai cinefili è quella di Jean-Luc Godard, che nel film Bande à part (1964) irriverentemente fa correre i suoi protagonisti lungo le sale del Louvre per stabilire un record nel tempo di visita più veloce del museo e per ribellarsi ai codici d’uso dell’istituzione museale. Ci riusciranno in 9 minuti e 45 (tanto dura la sequenza) ma il record sarà battuto dai protagonisti di The Dreamers, girato nel 2003 da Bernardo Bertolucci e ispirato all’opera di Godard, di cui vengono citati alcuni brani della sfrenata corsa.

 

Firenze - Galleria degli Uffizi

Sia pure con minore frequenza, anche gli Uffizi compaiono sullo schermo: la scena più nota tra quelle lì ambientate è sicuramente quella in cui Asia Argento, nei panni dell’ispettrice di polizia Anna Manni, sviene di fronte al quadro di Bruegel La caduta di Icaro. Il film è La sindrome di Stendhal (1996) del padre Dario, uno psicothriller con elementi horror. Conseguenza dello svenimento sono una terrificante allucinazione e uno stato di trance che porterà Anna a contatto con il violento serial killer cui dava la caccia. Un tè con Mussolini (1999), divertente e nostalgico film di Franco Zeffirelli, recupera una consuetudine degli Anni Trenta, quando la nutrita colonia inglese di Firenze si recava agli Uffizi per la cerimonia del tè. Inferno (2016) di Ron Howard inserisce gli Uffizi nella fuga di Tom Hanks che attraversa il Corridoio vasariano per sbucare nelle sale del museo, correndo a fianco delle opere d’arte lì custodite. Il percorso era stato ideato nell’omonimo romanzo da Dan Brown, scrittore amante della cultura italiana medievale e del Rinascimento.

 

Londra - British Museum

Già Hitchcock nel 1929, in Blackmail aveva utilizzato come set il British Museum: il ricattatore Tracy è inseguito nelle sale del museo e cerca scampo uscendo su una delle cupole, ma scivola e muore, permettendo alla protagonista Alice (Anny Ondra) di sfuggire alle inevitabili conseguenze penali di un suo eccesso di difesa. Ottantacinque anni dopo il regista Shawn Levy ritorna sullo stesso set per ambientarvi Notte al museo - Il segreto del faraone, terzo episodio della serie che ha come protagonista Larry Daley, guardiano del Museo di Storia Naturale di New York. Arriva a Londra incaricato di svelare i segreti della tavola egizia di Ahkmenrah. Come nei film precedenti, le opere conservate si animeranno in un susseguirsi di incredibili e divertenti peripezie, che alla fine vedono trionfare il personaggio interpretato da Ben Stiller.

 

LONDRA - Tate Modern

Per Woody Allen i musei sono luoghi di incontro tra i personaggi e anche in Match Point (2005), ambientato a Londra (è la prima volta che Allen gira in Europa), il protagonista ritrova Nola (Scarlett Johansson), un’attrice statunitense da cui si sente irresistibilmente attratto, alla Tate Modern, la celebre galleria d’arte moderna e contemporanea. Un incontro fatale: l’appassionata relazione farà di lui, lettore di Dostoevskij, l’abile giocatore di un match con il destino.

 

BERLINO - Alte Nationalgalerie

Nel 1966 il mondo è ancora dominato dalla guerra fredda tra paesi dell’Est e dell’Occidente: Il sipario strappato di Alfred Hitchcock ha come protagonista il fisico americano Armstrong, interpretato da Paul Newman, protagonista di un complicato doppio gioco per impadronirsi di una formula in possesso dei colleghi sovietici. Per sfuggire all’agente del controspionaggio russo che sospetta di lui, entra nell’Alte Nationalgalerie di Berlino. Le sale sono deserte e in una surreale sequenza (la migliore di un film non riuscito) Armstrong e il suo inseguitore si aggirano tra le statue, con inquadrature che ricordano la pittura metafisica.

 

New York - Metropolitan Museum Of modern Art

Tappa immancabile di un viaggio a New York, il Metropolitan Museum è il set per la maggioranza delle scene di Gioco a due (1999), remake del film “Il caso Thomas Crown” (1968). Se Steve McQueen nell’originale rubava in banca, Pierce Brosnan, miliardario in cerca di emozioni, trafuga un quadro di Monet conservato nel museo newyorchese. Contro di lui la polizia e un’affascinante agente assicurativa (Rene Russo) con cui ingaggia una partita fatta di molta astuzia e ironia.

 

NEW YORK - Solomon R. GUGGENHEIM MUSEUM

The International (2009) è un thriller politico dove un agente dell’Interpol (Clive Owen) e un pubblico ministero (Naomi Watts) indagano sulla corruzione della politica e sui suoi eventuali legami con banchieri corrotti, complici del crimine organizzato e del mercato illegale d’armi. Il Guggenheim, costruito nel 1937 sulla Fifth Avenue da Frank Lloyd Wright per ospitare collezioni d’arte moderna e contemporanea, con la sua singolare struttura elicoidale offre uno straordinario set allo scontro tra l’agente e i suoi nemici. Per evitare danni, parti del Museo vennero ricostruite in un teatro di posa di Praga. L’effetto però resta sorprendente. Il resto del film sposta i suoi set in Europa, fino a Istanbul, caratterizzando le riprese in ogni città con un colore dominante: a Milano prevale il color ocra.

 

ISTANBUL -Topkapı Sarayı

Nel 1962 lo scrittore e sceneggiatore Eric Ambler (autore di successo di storie spionistiche) pubblicò il romanzo The Light of Day, storia di un tentato furto al Palazzo Topkapi (un tempo reggia del sultano turco). Due anni dopo Jules Dassin ne trasse Topkapi, film di grande successo, al quale contribuì l’esotismo delle location. L’oggetto del furto è il celebre pugnale del sultano Mehmet I, con grandi smeraldi incastonati. I protagonisti sono un’affascinante avventuriera (Melina Mercouri) e il suo ex-amante, un ladro professionista (Maximilian Schell), che preparano accuratamente il colpo, circondandosi di abili professionisti del crimine e di un piccolo truffatore (Peter Ustinov premiato poi con l’Oscar), suo malgrado informatore dei poliziotti turchi, che sospettano un attentato terroristico. La suspence raggiunge il suo culmine nella scena del furto, girata in completo silenzio nel Palazzo di Istanbul. 

 

San Pietroburgo - ERmitage

Se volete visitare il grande museo russo e conoscerne la storia, lasciatevi guidare da Toni Servillo in Ermitage. Il Potere dell’Arte (2019) un docu-film diretto da Michele Mally su soggetto di Didi Gnocchi, che non si limita a presentarne i capolavori, ma ne racconta la storia e la immerge in quella della città, forse con qualche eccesso didascalico. Più affascinante il progetto di Sokurov, Arca russa (2002), che gira il film con una Steadicam in un unico piano sequenza di 96 minuti, una sola inquadratura senza stacchi. Il regista russo rianima i corridoi deserti del museo, con personaggi della storia della città e del palazzo, dai primi anni del Seicento. Ne diventa l’ironico narratore, assieme a un viaggiatore ottocentesco, il diplomatico francese Marchese de Custine, che sulla Russia del 1839 aveva scritto un libro. I due uomini esprimono le questioni e i pregiudizi che contraddistinguono i rapporti tra Russia ed Europa. A ogni sala è affidato un diverso periodo della storia russa, anche se il racconto non procede in ordine cronologico. Il racconto si chiude sull’ultimo Gran Ballo Reale del 1913, affollato di ballerini inconsapevoli del prossimo disastro. I nobili che vi partecipano escono dal palazzo, rivelando che si affaccia sul mare in tempesta e che sul mare è stato costruito.

 

TORINO - MUSEO NAZIONALE DEL CINEMA

Il nostro viaggio si chiude con l’affascinante Museo del Cinema torinese, collocato nella singolare costruzione della Mole Antonelliana. Davide Ferrario, il regista, ci accompagna nelle sue sale in Dopo mezzanotte (2004). Protagonista di una insolita storia d’amore, Martino (Giorgio Pasotti) è il guardiano notturno del museo e ama visionare i vecchi film muti conservati dall’istituzione. Amanda (Francesca Inaudi), la ragazza di cui è innamorato, dopo un incidente sul lavoro, cerca rifugio da lui e Martino le fa conoscere i segreti dell’esposizione. Un film divertente e colto, che ammicca a Truffaut (“Jules e Jim” in particolare) e restituisce tutto il piacere della visita a un grande e originale Museo.

 

 


 

10 maggio 2020

FESTA DELLA MAMMA

 

Rendiamo omaggio alla Festa della Mamma pensando alle nostre mamme e vedendo film che, grazie a storie realistiche o metaforiche, ci facciano riflettere sul ruolo delle madri nella nostra società.

Pedro Almodovar si muove sui due diversi registri (realistico e metaforico) grazie a una complessa narrazione in cui si incastrano vari piani di racconto: maternità, passione per il teatro e cinefilia. Tutto su mia madre già nel titolo rimanda a uno dei più bei film di Joseph L. Mankiewick, “All About Eve” (in italiano “Eva contro Eva”, 1950). Ambientato nel mondo del teatro, si avvaleva di una grande interpretazione di Bette Davis, così come il film del 1999 esalta le prove di attrici come Cecilia Roth, Marisa Paredes, Penelope Cruz e Antonia San Juan, e nell’ambiente teatrale, sin dall’inizio, ambienta gran parte delle vicende. Almodovar riprende una delle sue idee centrali: l’inestinguibile vocazione femminile alla maternità, che sopravvive anche alla perdita di un figlio. Nel suo stile finzione e realtà si mescolano: qui in particolare la vita è teatro e tutto è finzione. 

Aliens - Scontro finale de James Cameron (1986) è il secondo episodio della serie che prende inizio con il grande successo di Ridley Scott, “Alien” (1979). Ripley (Sigourney Weaver) viene richiamata in servizio per andare a scoprire cosa sta succedendo in una colonia spaziale. L’unica sopravvissuta è Newt, una bambina verso cui Ripley (che sulla Terra ha lasciato una figlia) sviluppa un fortissimo senso materno. Sentimento che serpeggia nella trama e su cui si articola uno degli episodi determinanti per la sconfitta degli alieni che si sono impadroniti della colonia e che sono guidati da una Regina che depone uova. Ripley, personaggio deciso e combattivo, privo di sentimentalismi, nel primo episodio era il simbolo della seduzione femminile, qui diventa l’emblema – anomalo – della inestinguibile vocazione alla maternità, citata da Almodovar. Restando nell’ambito della fantascienza cinematografica un’altra madre attira la nostra attenzione: quella di Terminator 2 – Il giorno del giudizio, un film del 1991 diretto sempre da Cameron. Sarah Connor (Linda Hamilton) è la madre di John, destinato a diventare il capo della resistenza ai Cyborg. Nel racconto, che spazia su diverse temporalità, Sarah, come ogni madre, combatte per salvargli la vita e si preoccupa di facilitare la sua futura missione. Il nemico è sempre Arnold Schwarzenegger. Tipico prodotto degli anni ’80/90, la serie mescola i generi (fantascienza, azione, horror) all’interno della struttura di un racconto fiabesco, che piacque particolarmente al pubblico.   

C’è anche un capitolo di madri dolenti eppure forti. Come la protagonista di Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh (2017), che a sette mesi dallo stupro e dall’uccisione della figlia non vede alcun avanzamento nell’inchiesta. Nonostante il dolore, sfida la polizia locale, affittando tre grandi manifesti pubblicitari, in cui con tre frasi icastiche racconta la vicenda e chiede allo sceriffo che cosa sta facendo. Frances McDormand (la ricordiamo in “Fargo”) con questa intensa interpretazione vince l’Oscar. Il regista, nonostante le origini angloirlandesi, riesce a tratteggiare un acuto, realistico spaccato della provincia americana, in cui una madre deve lottare solo per avere giustizia.

In 18 regali (2020) di Francesco Amato, una madre amorevole e battagliera, prima di morire per un tumore lo stesso giorno in cui partorisce, escogita il modo di restare a fianco della ragazza per 18 anni: prepara dei regali che a ogni compleanno saranno consegnati alla figlia. Quest’ultima reagisce ogni anno sempre più infastidita fino a che… Il regista (già autore del successo di “Lasciati andare”) si è ispirato a una storia vera, quella di Elisa Girotto e si è fatto aiutare nella sceneggiatura dal marito di lei, riuscendo nella difficile impresa di evitare le insidie del patetico e dello sdolcinato. I bravi protagonisti (Vittoria Puccini, Benedetta Porcaroli, Edoardo Leo) rendono plausibile questa insolita esaltazione dell’amore materno.

Quanto sia indispensabile la presenza materna in una famiglia, lo dimostra, nei toni della commedia, 10 giorni senza mamma di Alessandro Genovesi (regista della “Peggior settimana della mia vita”). Il film del 2019 mostra le difficoltà del protagonista (incarnato dal popolare Fabio De Luigi) nel gestire gli ostacoli familiari e lavorativi, durante la vacanza della moglie a Cuba. Si ride, ma anche si ragiona sul ruolo della donna, in famiglia e sul lavoro, e sul rapporto padre e figli. L’intero film è girato con la macchina a mano, per dare l’idea di una testimonianza visiva dall’interno della famiglia.

 

 


 

1 maggio 2020

FESTA DEI LAVORATORI

 

Sin dai suoi esordi il cinema dirige le sue macchine da presa sul mondo del lavoro e più tardi si inserisce nel conflitto che divide padroni e operai. Ecco alcuni di questi film.

Rivedere un grande classico il 1° maggio: con Tempi moderni Charlie Chaplin (che aveva espresso fino ad allora la sua ostilità al mutamento) approda nel 1936 al sonoro, ma non pronuncia una parola affidandosi alla musica e ai rumori. Il film affronta (provocatoriamente per gli USA liberisti) il problema del capitalismo e dei suoi effetti su una società che ancora risente della crisi del 29: il dominio incontrastato della macchina (che imbocca persino gli operai nella pausa pasto), l’oppressione della catena di montaggio, la disoccupazione, l’impotenza degli operai. La sua comicità colpisce nel segno ancora oggi e il film appartiene di diritto alla schiera dei capolavori della storia del cinema.

Anche ne La classe operaia va in Paradiso (1971) di Elio Petri compare la catena di montaggio: quella cui lavora Lulù, campione del cottimo, ammazzandosi di fatica tanto da non fare più l’amore con la moglie e da non avere esatta cognizione della realtà circostante. Fino al giorno in cui perde un dito e il suo mondo va a pezzi. Petri, assieme a Ugo Pirro (coautore della sceneggiatura), usa i modi della commedia all’italiana per una satira amara delle contraddizioni della classe operaia dopo le lotte del 69. Gian Maria Volonté fornisce volto e gesti al protagonista, con la solita grande abilità. Il film fu girato in una fabbrica vuota dopo il fallimento e gli operai licenziati furono assunti come comparse.

Con Norma Rae (1979) Martin Ritt, regista incline alle tematiche civili e attento ai personaggi femminili, trae spunto da una storia vera e costruisce un racconto classicamente strutturato sull’operaia di un cotonificio che da caporeparto diventa rappresentante sindacale per battersi contro le difficili condizioni ambientali e i tempi di lavorazione sempre più stretti. La vicenda si svolge nella rurale Alabama dove il sindacato non aveva vita facile. La protagonista, il cui nome dà titolo al film, trova un’interprete intelligente e sensibile in Sally Field, premiata con l’Oscar e la Palma d'Oro al Festival di Cannes. Un coraggioso ritratto delle lotte di fabbrica negli USA anni Settanta in quello che il New York Times definì “un dramma dei nostri tempi”.

Molti i film di Ken Loach sul lavoro. Difficile la scelta. Riff Raff – Meglio perderli che trovarli (1991) è il film che lo fa conoscere al grande pubblico, grazie alla comicità che si insinua nel ritratto del disastro sociale della Gran Bretagna erede della deregulation post Thatcher. La storia di Stevie è quella della presa di coscienza di un lavoratore edile, fino alla rivolta anarcoide. La macchina da presa 16 mm segue i personaggi nel cantiere qualunque cosa facciano, con lucidità di analisi e al tempo stesso sorriso nell’esposizione. Un’unione difficile che qui dà grandi risultati. Tra gli altri film segnalo Bread and Roses (2000) sulle lotte delle immigrate sudamericane costrette negli Stati Uniti a lavori precari e sottopagati, in un’atmosfera di continuo ricatto. Il titolo si rifà a una frase pronunciata dalla sindacalista femminista Rose Schneiderman, che chiedeva per le donne salari migliori.

Uno dei drammi più frequenti del nostro tempo nel mondo del lavoro è la chiusura delle fabbriche per delocalizzazione o perché non indispensabili al raggiungimento degli obiettivi della casa madre. Nel 2018 Stéphane Brizé dirige In guerra, dove descrive la lotta degli operai della Perrin, industria nel sud-ovest della Francia, all’annuncio della chiusura della fabbrica da parte della proprietà tedesca. Li guida il sindacalista Laurent Amédéo (interpretato da Vincent Lindon, attore feticcio del regista). La protesta è rovente, perché due anni prima avevano rinunciato a parte del salario e ai premi di produzione in cambio dell’assicurazione che la fabbrica avrebbe continuato il lavoro per almeno 5 anni. Adesso si invoca un insufficiente rendimento per minacciare di nuovo la fine della produzione, secondo uno schema che si ripete spesso anche in Italia. Brizé, pluripremiato per La legge del mercato (2015) sempre sul tema del lavoro, gira il film in 23 giorni, utilizzando un solo attore professionista (Lindon), e lavorando puntigliosamente sulla parola, per poter mettere in bocca a ognuno le frasi giuste, soprattutto nei momenti di conflittualità, come egli stesso ha dichiarato. Il titolo riflette la violenza, lucida e rabbiosa, dello scontro, in cui è in gioco il ruolo sociale dei lavoratori. In concorso a Cannes 2018, In guerra ha avuto l’applauso più lungo del festival. Nel 2003 Riccardo Milani aveva raccontato (sia pure con minore intensità) una vicenda simile, ambientata a Vasto, con Il posto dell'anima.

 

 


 

30 aprile 2020

GIORNATA MONDIALE DEL JAZZ

 

Da molto tempo Bologna ha un intenso rapporto col jazz: un Festival Internazionale del Jazz quasi ventennale, locali e cantine in cui si esibiscono dilettanti e professionisti di vaglia internazionale, un pubblico appassionato. Tanto da essere divenuta “città del jazz”, punto di riferimento nazionale ed europeo. In quarantena possiamo godere quotidianamente di concertini in streaming, ma per la giornata mondiale vale la pena ricorrere anche ai film. Molte le pellicole ambientate nel mondo del jazz, ma mi è parso valesse la pena invece concentrarsi su un film che per primo in Europa ha saputo fare della musica jazz un accompagnamento indispensabile delle immagini.

 

Ascensore per il patibolo (1957) di Louis Malle. Tratto da un romanzo giallo di non molto valore, il film anticipa i fasti della Nouvelle Vague di Godard e Truffaut. Malle, al suo esordio, lega la struttura del thrilling all’analisi dei sentimenti, approfondendo il rapporto della protagonista, una intensa Jeanne Moreau, con marito e amante. Il regista mette a frutto la lezione di Robert Bresson di cui era stato aiuto e quella del noir americano, ma dimostra la sua creatività nella scelta di un bianco e nero che esalta tonalità e contrasti, grazie all’uso di una pellicola ultrasensibile a sviluppo forzato e, soprattutto, con la richiesta a Miles Davis di una colonna sonora originale, che accompagna le immagini fornendo loro una nuova forza espressiva. Oggi si ricorda il film anche grazie all’apporto del grande jazzista.

Appunti per un film sul jazz (1965) di Gianni Amico, regista anomalo appassionato di jazz e di Brasile (dove gira film e collabora con registi come Glauber Rocha) e sceneggiatore (con Bertolucci e i fratelli Taviani tra gli altri). Nel 1965 gira a Bologna un documentario-reportage sul VII Festival del Jazz: nelle sue immagini emerge con forza il fervore degli organizzatori e del pubblico bolognese, assieme alla registrazione delle esibizioni di grandi musicisti come Gato Barbieri, Don Cherry, Steve Lacy e Mal Waldron. Da vedere per ritrovare atmosfere ed entusiasmi di una volta. Si trova nel DVD “Jazz e altre visioni”, che ha raccolto alcuni suoi documentari a cura della Cineteca di Bologna.

 

 


 

29 aprile 2020

GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DANZA

 

Pochi ricordano che uno dei primi film del catalogo Lumière era la ripresa, avvenuta nel 1896, della danza serpentina di Loïe Fuller. Il breve, affascinante brano (che trovate facilmente su internet digitando il nome della ballerina) fa intuire come cinema e danza siano uniti da un’affinità elettiva. Ecco tre film sul mondo del balletto per celebrare degnamente la Giornata internazionale della danza, in attesa di tornare a godere delle dirette dal Royal Ballet londinese nelle sale dell’Odeon.

Spettacolo di varietà (1953) di Vincente Minnelli appartiene alla stagione più felice del musical hollywoodiano e racconta delle difficoltà di un ballerino (Fred Astaire) la cui carriera teatrale appare in pericolo, dopo un periodo passato a Hollywood. La storia della sua ripartenza coincide con quella dell’allestimento di uno spettacolo in provincia e della conquista della donna amata (Cyd Charisse).

Billy Eliot (2000) di Stephen Daldry segue i sogni e gli sforzi di un undicenne, figlio di un minatore e orfano di madre, che, nel periodo degli scioperi dei minatori contro le decisioni della Thatcher degli anni Ottanta, vuole diventare ballerino. Tutto sembra essergli contro, anche suo padre, ma alla fine realizzerà il suo sogno. Il film si ispira alla storia del ballerino Philip Mosley, diventato uno dei primi ballerini del Royal Ballet, che però poteva contare sull’appoggio della famiglia. “Billy Eliot” è il primo film per cui il regista è candidato all’Oscar: lo sarà anche per “The Hours” (2002) e per “The Reader – A voce alta” (2008). Per la televisione ha prodotto e diretto la popolare serie “The Crown”, iniziata nel 2016.

Dancing Dreams – Sui passi di Pina Bausch (2010) di Anne Linsel e Rainer Hoffmann ripercorre l’allestimento del 2008 dello spettacolo di Pina Bausc. La piècHe includeva una cinquantina di danzatori non-professionisti, che nelle versioni precedenti erano sessantenni e oltre. Stavolta sono adolescenti tra i 14 e 18 anni, che per un anno, una volta alla settimana, seguono lezioni di danza e i migliori, selezionati dalla stessa Bausch, si esibiscono in teatro. Il progetto della Bausch fa di Kontakthof un luogo di incontro e di contatto, in cui emergono paure, passioni, delusioni, ma soprattutto tenerezza, evidenziata dalla presenza di giovani che, grazie a una danza che va al di là delle convenzioni estetiche di corpo e genere, prendono coscienza del loro corpo e acquistano fiducia in sé stessi. Dieci giorni prima della sua morte (2009), Pina Bausch poté visionare la copia definitiva del documentario.

 

 


 

25 aprile 2020

VIVA LA LIBERAZIONE

 

Come ogni anno la Festa della Liberazione è l’occasione per uno sguardo al passato: ai giorni in cui i nazisti sono costretti a lasciare le nazioni occupate, ma anche agli avvenimenti che li hanno preceduti e che il cinema ha celebrato con molti film sulla Seconda Guerra Mondiale. Nella mia scelta si mescolano registri diversi, film prodotti a Hollywood e film indipendenti, sguardi commemorativi e sguardi critici sulle promesse non mantenute del dopoguerra: un quadro che non riuscirà a essere completo ma che ci aiuterà a ricostruire quei tempi.

 

Il processo di Liberazione del suolo europeo ha avuto inizio il 6 giugno 1944, quando le truppe americane sbarcarono dal mare sulla costa del Calvados, in Normandia, e dal cielo sulle retrovie con 7000 paracadutisti: un combattimento corpo a corpo con l’esercito tedesco del Vallo Atlantico, a guardia delle coste. Nel 1962 il mitico produttore Darryl F. Zanuck decise di trasportare sullo schermo il libro di Cornelius Ryan Il giorno più lungo, con un all-star cast e tre registi accreditati, l’inglese Ken Annakin, lo statunitense di origine ungherese Andrew Marton, il tedesco Bernhard Wicki, cui si aggiunsero, non accreditati, Gerd Oswald per le scene di paracadutismo e lo stesso produttore. Con un ritmo incalzante, il film racconta le vicende che coinvolgono dapprima i paesaggi marini della costa, poi piccoli paesini della Normandia. Nell’edizione originale ognuno parlava la lingua di appartenenza, con i sottotitoli per il francese e il tedesco. In Italia il film fu invece interamente doppiato. Un kolossal in bianco e nero che mescola tratti documentari alla rielaborazione spettacolare delle vicende, ma che comunque addolcisce la crudeltà degli avvenimenti bellici. Tra gli attori Rod Steiger e Richard Todd avevano partecipato come soldati allo sbarco. Se volete un racconto meno edulcorato fate affidamento allo Spielberg di Salvate il soldato Ryan: nel 1998 il regista ricostruisce la ricerca dell’unico rimasto vivo di quattro fratelli per farlo rientrare negli Stati Uniti. Il giovane, paracadutato in Francia per lo sbarco in Normandia, risulta disperso. È il 6 giugno 1944 e la sequenza iniziale si svolge sulla spiaggia che in codice ha il nome di Omaha Beach, dove ebbe luogo una sanguinosa strage di giovani soldati americani.

Quasi tre mesi dopo, il 25 agosto 1944, le truppe alleate arrivano a Parigi. Il giorno prima era arrivato l’ordine di abbandonare la città facendo brillare tutte le mine già collocate nei principali monumenti e nei ponti sulla Senna, per lasciare solo macerie dietro di sé. Diplomacy - Una notte per salvare Parigi (2014) di Volker Schlöndorff racconta di come la città fu salvata dal console svedese Raoul Nordling che convinse il generale Dietrich von Choltitz, a capo della forza di occupazione nazista, a rinunciare al barbarico atto, disobbedendo agli ordini ricevuti. Tratto di un’opera teatrale di Cyril Gély, che aveva ottenuto in Francia un grande successo nel 2011, il film non abbandona la limitata struttura spaziale del palcoscenico (le stanze del quartier generale tedesco, in cui si arriva da un passaggio segreto) e Schlöndorff governa con grande abilità ed equilibrio l’elaborato e avvincente gioco psicologico che coinvolge i due protagonisti (interpretati da due grandi attori francesi di cinema e teatro: André Dussollier e Niels Arestrup) attorno ai concetti di civiltà, ragione, umanità e obbedienza militare agli ordini. La stessa vicenda, nel 1966, era stata al centro di un film differente e più controverso: Parigi brucia? di René Clément, una superproduzione che vedeva Orson Welles nei panni del console che trattava con Gert Fröbe (poi noto per il ruolo di Goldfinger) e in parti minori K. Douglas, J.-P. Belmondo, A. Delon, R. Schneider, G. Ford e altri. Tra gli sceneggiatori spiccano i nomi di Gore Vidal e del giovane Francis Ford Coppola.

Intanto nell’Italia del Nord i partigiani combattono contro i nazisti in attesa dell’arrivo delle truppe alleate. Nel 2000 Daniele Gaglianone visiona le registrazioni filmate delle testimonianze di partigiani piemontesi e da qui trae ispirazione per I nostri anni, il suo primo lungometraggio. Nel film, girato in un contrastato bianco e nero, mescola brani di finzione, testimonianze e materiale di repertorio sulla Resistenza piemontese. La storia racconta di un vecchio partigiano, Alberto, che ritrova nella casa di riposo di cui è ospite il comandante delle brigate nere fasciste che aveva ucciso uno dei suoi compagni di lotta. Il film si chiude con una frase che riflette la delusione di una generazione: «i nostri anni sono passati come una storia che ci è stata raccontata e il luogo dove accaddero queste cose non ne serberà traccia.» Appassionato e privo di retorica, il film contrasta singolarmente con Achtung banditi, realizzato da un altro esordiente, Carlo Lizzani, nel 1951: nonostante tutto, la speranza e l’entusiasmo dominano il racconto dai toni a tratti documentaristici di una vicenda della resistenza ligure, negli ultimi mesi del 1944. Il film fu finanziato con un crowfunding ante litteram da una cooperativa di spettatori e fortemente voluto dalla sezione ligure dell’ANPI. Tra gli interpreti Gina Lollobrigida e il futuro regista Giuliano Montaldo.

All’inizio degli anni Sessanta Dino Risi, che l’anno seguente dirigerà “Il sorpasso”, sembra quasi stilare un bilancio degli anni del dopoguerra e attraverso il protagonista di Una vita difficile (Alberto Sordi in una delle sue prove migliori) tratteggia la delusione di chi ha visto tradite le speranze della lotta e le gioie della Festa per la Liberazione, lasciandosi corrompere dalle lusinghe del benessere e del conformismo, per poi riscattarsi nel finale. Celebre la sequenza in cui Sordi e la moglie (Lea Massari) il 4 giugno 1944, pur di mangiare qualcosa, accettano l’invito a cena da nobili monarchici e sono gli unici a gioire dell’arrivo degli alleati. Il grottesco venato di malinconia accentua il valore simbolico della scena in cui si prefigura il mutamento sociale e politico. Nel 1972 Ettore Scola ritorna sull’argomento con C’eravamo tanto amati, dove i protagonisti (Manfredi, Gassman, Satta Flores) sono tre partigiani che devono affrontare il ritorno alla vita normale e la fine degli ideali e delle illusioni elaborati durante e dopo la guerra (le cui scene sono in un nostalgico bianco e nero). Il ritratto della società italiana è dipinto nei toni prevalenti del comico ma anche in questa opera tutto si vena di mestizia.

 

 


 

18 aprile 2020

RICETTE DALLO SCHERMO

 

Ricevo, dall’Italia e dall’estero, molte newsletter riguardanti il cinema. L’arrivo della mail della Cinémathèque di Parigi, la più effervescente in questo momento, mi ha dato lo spunto per questo menù, composto da ricette illustrate, più o meno seriamente, da sequenze filmiche, al cui indirizzo web rimando (tranne in un caso in cui ci dobbiamo accontentare di una foto). Dato che, come pare, passiamo il nostro isolamento in cucina o davanti agli schermi tv, l’abbinamento mi è sembrato stuzzicante. Andiamo a cominciare:

 

Antipasto

Ricorriamo, in apertura del pranzo, alla comicità di Totò che, in Totò, Peppino e i fuorilegge di Camillo Mastrocinque, deve quotidianamente combattere con una moglie avara, cui presta il volto Titina De Filippo. Pochissime le olive sul piatto di portata nel film: voi invece abbondate, servendole in coppette assieme a un bel piatto di salumi, e sceglietele tra le molte varietà italiane, dalle famosissime taggiasche a quelle marchigiane, in salamoia con aglio, finocchietto selvatico, dalla Bella di Cerignola (verde e nera) all’abruzzese Cucco, all’Itrana verde (schiacciata e conservata in olio con peperoncino, aglio e prezzemolo) alla Cassanese, immersa in olio aromatizzato con peperoncino, scorza di limone o arancia oppure foglie di menta.

https://www.youtube.com/watch?v=-KBzA75hN-c

 

Primo

Nel menu romano di Pranzo di Ferragosto di Gianni Di Gregorio non poteva mancare un classico come la pasta al forno. Qui ha il formato delle lasagne, condite con mozzarella e parmigiano - così fanno la crosticina – e, presumibilmente salsiccia e passata di pomodoro. Il film, girato nel 2008, appare nella lista, stilata due settimane fa da BBC Culture, delle dieci pellicole più rassicuranti contro il virus, al fianco di Cantando sotto la pioggia.

https://www.youtube.com/watch?v=VS0UVLqJ-hM

 

Secondo  

Ne La grande bellezza di Paolo Sorrentino durante un pranzo dell’alta società romana, il mondano cardinal Bellucci espone ai commensali la ricetta del coniglio alla ligure, cui pare tenere molto. Un ricordo delle origini che contrasta singolarmente con la superficialità dell’ambiente di cui è esponente. Il coniglio, consiglia il prelato, va tagliato in dodici pezzi, rosolato (nella cipolla tritata, secondo la tradizione), poi bagnato con un bicchiere di vino rosso che va sfumato. Continuare la cottura per mezz’ora, unendo via via brodo di carne. Aggiungere timo, alloro, rosmarino e olive taggiasche e cuocere per un’altra mezz’ora, sempre bagnando la carne. La diffusione del piatto sulle tavole liguri è dovuta alla presenza, fin dall’antichità, di molti allevamenti di conigli in regione, in particolare nelle province di Savona e Imperia.

 

Contorno

Come contorno al coniglio abitualmente si servono patate al forno o insalata, ma io vi consiglio un piatto francese, la celebre ratatouille, che nasce a Nizza, a qualche decina di chilometri dalla Liguria. Il piatto ha dato il titolo al film Disney con un successo internazionale che dura ancora oggi a 13 anni di distanza dalla prima. Nella trama di Ratatouille il piatto gioca un ruolo centrale: conferma la grande abilità culinaria del topino Rémy, che viene riconosciuto come un vero chef, e fa riacquistare l’umanità al severo critico culinario Ego, grazie ai ricordi infantili che suscitano le verdure, magistralmente assemblate e condite.

https://www.youtube.com/watch?v=v0PSNTvKeP8

Se le immagini non vi bastano, consultate https://www.profumodicannella.net/2018/06/21/ratatouille-la-ricetta-del-film-disney-pixar/

 

Dessert

Inevitabile scegliere i courtesan al cioccolato di Grand Budapest Hotel, la popolare pellicola di Wes Anderson. Il dolce preparato nel film dalla pasticceria Mendl's infatti compare a più riprese nella trama del film, generando con la sua presenza una serie di eventi tra cui l’evasione dal carcere di Gustave, il portiere protagonista. Anderson, durante la lavorazione del film, girò un video con le istruzioni per cucinare il «Courtesan au Chocolat».  Il Courtesan au Chocolat era stato creato, con la collaborazione del regista, appositamente per le riprese da Anemone Müller del Café CaRe di Görlitz. Il dolcetto era ispirato alla “religieuse”, una composizione di bignè ripieni, creata nel 1855 da un gelataio napoletano, proprietario della nota pasticceria Chez Frascati in Boulevard Montmartre. Il nome scelto da Anderson, capovolge parodisticamente il significato di “religieuse”, ovvero suora, appellativo attribuito alla pasta perché ricordava la silhouette di una suora paffuta, con il suo largo abito. Una delle traduzioni di courtesan è infatti prostituta. Se seguite fedelmente il video e possedete qualche abilità in pasticceria, riuscirete a riprodurre la piccola torretta di bignè, ripieni di crema al cioccolato e glassati di rosa, colore che caratterizza il film. Altrimenti accontentatevi di bignè al cioccolato e pensate intensamente alle immagini del film.   

https://www.youtube.com/watch?v=jWrXG6AKeUc

Per una versione italiana della ricetta, consultate https://www.socialup.it/un-film-a-tavola-i-courtesan-au-chocolat-di-the-grand-budapest-hotel-2/

 

 


 

12 aprile 2020

BUONA PASQUA!

 

Per la Pasqua inusitata che stiamo vivendo, abbiamo cercato film differenti dai soliti che ci propinano le reti televisive. Lasciamo da parte quindi le opere più o meno romanzate sulla vita di Cristo o sulla sua passione per tre film sulle stesse tematiche ma indubbiamente diversi, dagli altri e tra di loro.

Il primo è Il vangelo secondo Matteo (1964), uno dei migliori film di Pier Paolo Pasolini e racconta di Gesù dall’Annunciazione alla Resurrezione. In un bianco e nero raffinato e manieristico gli episodi della vita di Cristo (realistici e potentemente evocativi) si dispiegano sullo sfondo delle valli e dei dirupi della Lucania, accompagnati da una colonna sonora che spazia da Bach, Mozart, Prokof’ev a canti russi della rivoluzione. Dedicato da Pasolini «alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII», secondo Di Giammatteo il film «oscilla tra profondo (viscerale) fervore religioso, laico furore contro i mali del mondo (l’ipocrisia, l’inganno, i soprusi dell’uomo sull’uomo), sofferenze laceranti …, odio e disprezzo dei potenti» (“Dizionario dei capolavori del cinema”).

Jesus Christ Superstar (1973) di Norman Jewison è la trascrizione di un musical che aveva ottenuto grande successo a Broadway e a Londra. Opera rock e hippy, con riprese in Medio Oriente, è un tipico prodotto del suo tempo, in grado però di superare senza problemi il passare dei decenni e le polemiche, divenendo documento di un’epoca, di una concezione di vita e di una moda. Il racconto, prodotto della cosiddetta “Jesus Revolution”, si concentra sull’ultima settimana di vita di Gesù, vista con gli occhi di un Giuda afroamericano e rivoluzionario e ritratta con colori sgargianti e musica rock. Grande successo degli anni Settanta, da rivedere.

Atto di primavera (1963) è una delle prime opere del grande cineasta portoghese Manoel de Oliveira. In una sorta di cinema verità, il regista riprende la rappresentazione della Passione di Cristo che ogni anno si svolge nel paesino di Curalha, a nord del Portogallo, riprendendo un testo del Cinquecento di Francisco Vaz de Guimarães. Non si tratta di un semplice documentario: va oltre la riproduzione del reale, fino a diventare espressione della sensibilità e della fede di un popolo. Con un montaggio ardito la morte di Cristo è accostata alla violenza e la follia della guerra del Vietnam e alle esplosioni nucleari della seconda guerra mondiale.

Se invece vogliamo abbandonarci alla finzione e al romanticismo, affidiamoci a Chocolat di Lasse Hallström, film di grandissimo successo girato nel 2000. Tratto da un romanzo di Joanne Harris, il film racconta del potere quasi magico del cioccolato, che sconvolge il perbenismo di un paesino bretone degli anni Cinquanta. La protagonista, Vianne Rocher (Juliette Binoche), francese con vaghe ascendenze atzeche, arriva nel villaggio durante la Quaresima e, nel suo negozio, comincia a confezionare le sue inimitabili praline e certi gustosi dessert, che la maggior parte degli abitanti associa immediatamente al peccato. A poco a poco il muro di ipocrisia viene abbattuto e anche Vianne trova l’amore in uno zingaro che ha il volto di Johnny Depp. Favola moderna, da vedere mangiando il cioccolato delle uova di Pasqua.

Venticinquesimo nella classifica dei migliori 50 cult movies stilata nel 2003 dalla rivista USA “Entertainment Weekly”, Willy Wonka e la fabbrica del cioccolato (1971) di Mel Stuart ha solo una scena in cui si fa riferimento alla Pasqua, ma il suo spirito ben si adatta alla festività. Nella sequenza citata alcune oche fanno prodigiosamente delle uova pasquali di cioccolato. Tratto da un romanzo di Roald Dahl (nel 2005 riadattato da Tim Burton), il film, nato come musical per bambini, si rivela pienamente figlio della cultura pop, sia per l’uso dei colori che per la caratterizzazione che Gene Wilder fa del personaggio di Wonka. Adatto ai bambini, piace moltissimo agli adulti per la sua arguzia.

Nella cultura anglosassone simbolo pasquale per eccellenza sono i coniglietti, nel tempo variamente tratteggiati. Anche il cinema se ne è impossessato e nel 2011 esce quella che è considerata una delle migliori pellicole sui conigli pasquali: Hop di Tim Hill, un film del 2011 che unisce personaggi animati e attori reali. Al centro del racconto stanno le avventure di C.P. (Coniglio Pasquale) e Fred: il primo fugge dall’isola di Pasqua per diventare attore, il secondo lascia la casa paterna, stanco dei rimproveri del padre. Il caso li fa letteralmente scontrare e cambia le loro vite. Favola per bambini, ma anche per adulti un po’ storditi dopo il pranzo di un giorno di festa.

Auguri, tanti, per una Pasqua ricca di cinema e di uova, nell’antichità simbolo della primavera e del risveglio della natura.

 

 


 

7 aprile 2020

SALUTE DAY

 

Mai come quest’anno riusciamo a capire appieno il senso della Giornata mondiale della salute e mai come quest’anno dobbiamo celebrarlo secondo le forme che ci sono più consone. Per noi il cinema. Ecco allora qualche film da ripescare, nelle collezioni personali o sul web, anche se ci manca come non mai la visione nel buio della sala.

Inizio con i film che appartengono al cosiddetto cinema civile che si fa portatore di ideali e di lotte per cambiare alcuni aspetti della società. Il lieto fine è quasi d’obbligo. E oggi ne abbiamo particolarmente bisogno.  

Insider- Dietro la verità (1999) di Michael Mann racconta una storia vera, legata al diritto alla salute nella società contemporanea. Russell Crowe è un chimico dipendente di una multinazionale del tabacco che rivela i nefasti effetti delle sigarette, accuratamente occultati dalla potente lobby del tabacco. Il tentativo di screditarlo fallisce e la verità trionfa.

Vent’anni più tardi anche Cattive acque di Todd Haynes prende spunto da un fatto reale e, con la stessa efficace sobrietà di Mann, racconta della lotta ventennale dell'avvocato Robert Bilott contro la Dupont, che, fabbricando la pellicola antiaderente che ricopre i nostri tegami, inquina le acque circostanti provocando morte e malattie. Anche in questo “legal drama” il bene ha la meglio e negli anni Novanta l’avvocato di Cincinnati vince la causa.

Se preferiamo l’effetto della catarsi, dobbiamo rivolgerci a un altro genere, quello del disaster movie: Virus letale (1995) è diretto da Wolfgang Petersen, regista tedesco che aveva raggiunto la fama (e Hollywood) con U-Boot 96 film d’azione di grande successo. Per raccontare la lotta di un dottore militare contro il virus (creato in laboratorio) e lo stesso esercito, si riunisce un cast all-star: Dustin Hoffman, René Russo e Morgan Freeman. Alla fine si ritrova il vaccino e ovviamente i cattivi sono puniti.

Con Contagion (2011) di Steven Soderberg ci avviciniamo paurosamente alla realtà che stiamo vivendo. Il virus passa da animale a uomo e da Hong Kong si diffonde scatenando una pandemia, a causa degli spostamenti in aereo. Lo sceneggiatore Scott Z. Burns, già noto per The Bourne Ultimate, chiese all’epidemiologo Larry Brilliant se quanto raccontava fosse scientificamente possibile. Lo scienziato gli rispose che la questione non era se fosse possibile, ma quando sarebbe successo. Oggi il film è uno dei più visti in streaming e in tv; molti intervistano Burns per chiedergli come finirà. “Ce la faremo” assicura lo sceneggiatore.

Chiudo con un film che è un inno alla tenerezza di coppia e che mescola abilmente il dramma della malattia con una vena comica: Ella & John - The Leisure Seeker di Paolo Virzì. Girato nel 2017, il film, arricchito dalla magistrale interpretazione di due mostri sacri come Helen Mirren e Donald Sutherland, narra della fuga di una anziana coppia con un mitico camper, il Leisure Seeker appunto, per sfuggire alle cure che li separerebbero. Lui è affetto da Alzheimer e lei è malata di cancro ma questo non impedisce di ritrovare l’affetto profondo e dolce che accompagna le unioni più felici. L’amore non restituisce la salute, ma vince lo stesso la malattia.

 

 


 

6 aprile 2020

CARBONARA DAY PER CUCINARE E SOGNARE

 

Gli spaghetti alla carbonara sono uno dei piatti italiani più conosciuti nel mondo, tanto che il 6 aprile di ogni anno si celebra il Carbonara Day.

Le origini del piatto sono oggetto di dibattito tra gli studiosi delle cose gastronomiche: l’hanno inventato i carbonari del Lazio e delle Marche? Oppure nasce dall’aggiunta delle uova alla pasta alla Gricia (condita con guanciale, pecorino e pepe), magari su suggerimento di qualche soldato alleato che aveva nostalgia delle colazioni a base di “Egg and Bacon”? Oppure l’ha davvero inventato il celebre cuoco Renato Gualandi in occasione di un pranzo per i soldati alleati che avevano liberato la Romagna, usando gli ingredienti disponibili, ovvero polvere di rosso d’uovo, bacon, crema di latte e formaggio?

Sta di fatto che del piatto non si trova traccia nei ricettari romani prima del dopoguerra. A partire dagli anni Cinquanta approda invece al cinema. Nel 1951 in Cameriera bella presenza offresi di Giorgio Pastina, Elsa Merlini (Maria) in un assolato agosto romano va a servizio in varie case. Aldo Fabrizi, prima di assumerla, sulla porta di casa, le chiede se sa fare gli spaghetti alla carbonara. Nonostante la risposta negativa, Maria otterrà il lavoro, dimostrazione per alcuni che il piatto non era ancora così noto.

In quel decennio, e anche dopo, però il rapporto più cospicuo del piatto con il mondo del cinema non ha luogo sullo schermo ma nelle cene che costellano la presenza dei divi sui set di Cinecittà. La fama della carbonara era già consolidata negli USA, tanto da comparire nella “Guide for gourmets” di Patricia Bronté “Vittles and Vice”, pubblicato nel 1952 che fa una vivace descrizione dei piaceri gastronomici che possono offrire i ristoranti del Near North Side, quartiere particolarmente vivace di Chicago in cui il passato culinario si accompagna al nuovo, mescolando vecchio e nuovo. Da Armando’s i due proprietari di origine italiana annoverano nel menu una carbonara, di cui offrono la ricetta, piuttosto precisa anche se al posto degli spaghetti si usano dei “tagliarini”. In Italia la prima ricetta “attestata” è del 1954, sulle pagine della Cucina italiana.

I divi hollywoodiani che affollano Cinecittà amano la pasta unita al gusto casalingo di uova e pancetta. Pare che Oliver Hardy, arrivato a Roma nel 1950 ne mangiasse addirittura cinque porzioni, una dietro l’altra. Gregory Peck nell’estate del 1952, durante le riprese di Vacanze romane, affittò una villa nella campagna romana. Adelaide, la cuoca, rivelò al “Corriere della Sera” di avergli spesso servito degli spaghetti alla carbonara, della pizza e dei pomodori ripieni di riso”.  Dalla fine degli anni Cinquanta, i divi che recitano in Italia non resistono al fascino della carbonara, come documentano i giornali dell’epoca e le richieste dei turisti americani che arrivano nella città eterna e che vogliono mangiare come le star.

Dal canto loro gli attori italiani se ne fanno ambasciatori all’estero, come le carbonare che Marisa Merlini (popolare per Pane, amore e fantasia) prepara durante un festival in Uruguay con il vezzo di sostituire alla pancetta prosciutto di San Daniele. Abitudine consolidata come testimonia Domenico Modugno, suo ospite a Roma.

Anche oggi la carbonara esercita il suo fascino sul mondo del cinema. Nell’ottobre 2019 Martin Scorsese presenta alla Festa del Cinema di Roma il suo film The Irishman. Dopo la proiezione ha festeggiato con la famiglia e i dirigenti di Netflix, produttori del film, all’Antica pesa, raffinato ristorante di cui è un habitué (assieme ad Elton John), con un menu tipicamente romano, fra cui spiccava il primo: chitarra alla carbonara.

Nel 2000 Luigi Magni aveva diretto il suo ultimo film. Il titolo, La carbonara, gioca sull’ambiguità: da un lato allude alla protagonista, fervente patriota italiana del 1825, dall’altro alla trattoria dallo stesso nome dove lei, con un giustificato falso storico, cucina con successo gli spaghetti.

Nell’aprile del 2016 scoppia una forte polemica fra Francia e Italia, su giornali e siti web, oltre che radio e televisioni, per una provocatoria ricetta sul web dove la carbonara veniva proposta con farfalle ultrabollite per 15’, pancetta sbollentata, panna e uovo crudo. Un film dello stesso anno Prima di lunedì di Massimo Cappelli sembra riproporre, sia pure con maggiore pacatezza, il dibattito in una scena dove Vincenzo Salemme, preparando una carbonara, polemizza con una Sandra Milo che parla con accento francese e che propone la panna da unire alle uova.

Ancora nel 2016, in Al posto tuo di Max Croci, Ambra Angiolini cucina pasta alla carbonara per un pranzo alla romana. Emblema della romanità? Troppo riduttivo. Ormai nel mondo rappresenta la cucina italiana. Tuttavia a Roma è impossibile resistere alla loro attrazione: anche Chiara Ferragni, come le attrici degli anni Sessanta, addenta con gusto gli spaghetti di una carbonara.

Per fare gli spaghetti alla carbonara seguite su Instagram il tutorial di Italy Foodnest. È perfetto e non avrete problemi per festeggiare il Carbonara Day, magari sognando di essere a Roma in compagnia dei divi degli anni Sessanta.

 

 



28 marzo 2020

VIAGGI IN ITALIA

 

Qualche giorno fa Gabriele Salvatores ha lanciato un appello per conservare la memoria di un evento senza precedenti, grazie alla raccolta di “testimonianze dirette, filmati girati da casa, dalla finestra, materiali inediti sulle emozioni che ci hanno investito in questi giorni terribili”. Il progetto si chiama Viaggio in Italia e nel titolo rimanda al film di Roberto Rossellini del 1954, che a sua volta ricordava il celebre libro di Goethe, diario del Grand Tour, considerato esperienza insostituibile nella formazione di molti intellettuali a partire dagli ultimi decenni del Settecento.

Il viaggio nel lockdown italiano visiterà un’Italia davvero insolita, molto diversa da quella che Gabriele Salvatores aveva attraversato nel 1990 con Turné. Diego Abatantuono e Francesco Bentivoglio erano gli interpreti di una storia dove la riflessione sul teatro si intrecciava a una tormentata storia d’amore e d’amicizia. Sullo sfondo del viaggio, che partiva da Milano, sfilavano paesaggi come la diga della Gola del Furlo, vicino a Urbino, e le saline di Margherita di Savoia, o cittadine come Gubbio (in Umbria), Trani, Polignano a Mare, Ostuni e Rutigliano in Puglia.

Nel 1950 con Il Cammino della speranza Pietro Germi aveva raccontato un viaggio che si muoveva in senso contrario, dal Sud al Nord. Un gruppo di siciliani è costretto dalla chiusura di una zolfatara ad abbandonare l’isola per emigrare in Francia, dove li aspetterebbe un lavoro. Alla stazione Termini vengono abbandonati senza un soldo dal truffatore che ha organizzato il viaggio. Nonostante le traversie e le tragedie, un gruppetto di superstiti attraversa le Alpi e supera il confine: le guardie di frontiera francesi lasciano passare i clandestini fingendo di non vederli. Le vicende si snodano nell’Italia del dopoguerra, dolente, misera, immersa in questioni sociali irrisolte e drammatiche.

Viaggio in Italia di Roberto Rossellini segna, quattro anni dopo, il passaggio a una nuova fase del cinema italiano, che abbandona i modi neorealistici per un cinema più moderno come stile e contenuti. Il film racconta il viaggio fino a Capri di una algida coppia inglese (Ingrid Bergman e George Sanders) la cui crisi divampa a contatto con la bellezza quasi insopportabile del paesaggio di Napoli e i suoi dintorni. Come ha dichiarato il regista il mondo che li circonda diventa quasi un terzo personaggio. Rossellini vede il paesaggio italiano, le abitudini e la naturale pietà dei suoi abitanti con gli occhi dei due stranieri, così che il paesaggio diventa una visione mentale. Significativa la scena in cui le solitarie figure di Katherine e suo marito (ormai decisi a separarsi) camminano attraverso le rovine deserte di Pompei, riflesso della loro solitudine spirituale.  

Il viaggio de Il Sorpasso (film quasi perfetto di Dino Risi, girato nel 1962) è breve: da Roma a Castiglioncello, sulle coste toscane del Mar Tirreno. Eppure più di ogni altro il percorso compiuto da Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant diviene emblematico di quanto il boom economico ha cambiato e cambierà gli italiani, indirizzandoli verso l’incoscienza e la volgarità trionfante. La Roma deserta del periodo di Ferragosto, gli incontri durante il viaggio, l’approdo nelle località vacanziere della costa Toscana sono i tasselli di una testimonianza sociologica, che ad un tempo assume il valore di un monito e di una preveggenza.

Anche il viaggio di Basilicata Coast to Coast non attraversa la penisola, ma solo una regione. Rocco Papaleo, che del film è regista e protagonista, guida un gruppo di musicisti dilettanti che a piedi si dirige da una parte all’altra della Basilicata (da Maratea a Scanzano) per partecipare a una rassegna canora. Attraverso vicende non esenti da accenti autobiografici, Papaleo fa così conoscere agli spettatori italiani una regione fino ad allora quasi completamente ignorata dal cinema, con l’unica eccezione di Matera. La cifra comica della narrazione facilita la riscoperta di una realtà antropologica e culturale nella sua essenzialità, evitando gli abituali stereotipi.

Questa settimana i miei consigli di visione terminano con un documentario del 1999, Il mio viaggio in Italia di Martin Scorsese: una lunga, esemplare riflessione sul cinema italiano, ricco come pochi altri di grandi capolavori. Scorsese ne ripercorre la storia, mostrando come le sue opere siano rimasto influenzate dai film italiani e dal neorealismo in particolare. Le immagini di Rossellini, De Sica, Visconti, Antonioni e Fellini sono commentate dal regista, che inconsapevolmente trasforma il suo personale viaggio intellettuale in una ricostruzione del paesaggio e della realtà del nostro paese, dagli anni Dieci agli anni Sessanta.

 

 


 

21 marzo 2020

LA PRIMAVERA NEL CINEMA

 

Quando giungeva la primavera, anche la falsa primavera, non restava che da risolvere il problema del posto in cui sentirsi più felici

Ernest Hemingway, Festa mobile

Sin dall’antichità la fine del cupo inverno era celebrata con feste e riti: la natura esaltava il suo risveglio con la bellezza dei colori e dei profumi. Era finalmente primavera. Anche il cinema si ispira a queste consuetudini, a volte sfruttando il significato metaforico di questo risveglio. Tra i molti film ecco le nostre scelte:

 

  • Cominciamo con un musical girato nel 1948: Easter Parade (in italiano Ti amavo senza saperlo) di Charles Walters. La parata del titolo originale è quella che ogni anno si svolge a New York la domenica di Pasqua e coinvolge anche gli artisti di Broadway come i due ballerini protagonisti della storia d’amore e di fantastiche esibizioni: Fred Astaire e Judy Garland. Due parate aprono e chiudono il film, ambientato nel 1912.

 

  • In Giappone una delle grandi feste dell’anno è legata alla fioritura dei ciliegi (Sakura). Un regista come Yazujiro Ozu, lascia sullo sfondo gli alberi in fiore e nel 1956 celebra l’Inizio di primavera attraverso la storia tormentata di un tradimento coniugale, che alla fine rinsalda il rapporto di coppia. Quello che è considerato il miglior film del regista, Tarda primavera (1949), allude nel titolo all’età della protagonista, non ancora sposata e pronta a sacrificare i suoi sentimenti per il padre, che invece affronterà la solitudine perché la figlia sia felice.

 

  • In Italia nel 1950 Renato Castellani racconta una storia di cui sono protagonisti soldatini e servette, ispirata a un fatto di cronaca, un caso di bigamia. Secondo Fernaldo Di Giammatteo che recensisce il film alla sua uscita È primavera volge ogni cosa in scherzo e non si perita di sconfinare nell'assurdo per raggiungere un clima di comicità pura", quasi volesse rifiutare il neorealismo e le sue storie dolenti. Il titolo alludeva alla popolarissima canzone di Alberto Rabagliati il cui ritornello esortava: “E’ primavera, svegliatevi bambine”, già utilizzata da Castellani nel suo film precedente.

 

  • Eric Rohmer amava inanellare i suoi film in cicli. Racconto di Primavera dà inizio alla serie dei Racconti delle quattro stagioni. Con la sua abituale leggerezza di stile, costruisce una trama filiforme ed elegante, narrando di amori fastidiosi e del modo di trasformarli in amori riusciti. Tra le giovanissime protagoniste Florence Darel, conosciuta dal pubblico italiano per la serie tv Alice Nevers – Professione giudice.

 

  • Con Primavera estate, autunno, inverno... e ancora primavera (2003) il regista coreano Kim Ki-duk abbandona il suo stile abituale intriso di violenza per un’opera mistica e romantica ad un tempo, espressione di atmosfere tipicamente buddiste. Ambientato in un piccolo tempio in mezzo a un lago, tra le montagne, il film segue le travagliate vicende di un uomo dall’infanzia (la primavera) alla maturità, che è una nuova primavera: al suo fianco c’è un bambino, simbolo del ripetersi del tempo e delle stagioni.

 

  • Nel 2002 per la sezione Controcorrente della Mostra di Venezia si attribuisce il Premio San Marco a Primavera in una piccola città (2002) di Tian Zhuangzhuang. Il regista, noto per i suoi fascinosi documentari, da 10 anni non dirigeva film per motivi politici. Ritrova il coraggio di esprimersi, vedendo e rivedendo l’omonimo film di Fei Mu (uno dei padri del cinema cinese), girato nel 1948 dopo una guerra brutale e un terribile inverno, quasi a celebrare una reale primavera per la nazione cinese. La vita di una coppia è sconvolta dal ritorno dell’ex amante della moglie. Tian riprende il tema della lotta fra passione e dovere e, utilizzando gli stessi toni minimalisti, ne fa il remake, accentuando delicatezza e ritegno. Lo aiuta la maestria del taiwanese Mark Lee, noto per la fotografia di In the Mood for Love.

 

  • La primavera del titolo dell’ultimo è quella italiana. Spring (2014) di Justin Benson e Aaron Moorhead è un horror di produzione USA, girato a Polignano a mare. Dopo la morte della madre, Evan, depresso, decide di fare un viaggio e approda in un paesino della Puglia, dove sembra rifarsi una vita. La relazione con una misteriosa ragazza sposta la vicenda nel fantastico, ma alla fine l’amore supera ogni ostacolo. L’ibridazione di orrore e romanticismo fa sì che  Guillermo del Toro lo consideri uno dei migliori film horror contemporanei.

 

 


 

14 marzo 2020

CINEMA E NUMERI

 

Il 14 marzo è la Giornata Mondiale della Matematica con buona pace per chi a scuola l'ha amato o l'ha odiata. La matematica è ha un ruolo essenziale nella vita di tutti, è ovunque: nei modelli per prevedere l'andamento di una malattia, negli algoritmi che permettono di usare internet, nei videogiochi e anche nel cinema. In questa occasione le dedichiamo il primo approfondimento.

 

  • Sin dalle origini il cinema fa propri elementi della cultura popolare, tra cui la simbologia legata ai numeri (vecchia di parecchi secoli alla fine dell’Ottocento). A volte il ricorso ai numeri e ad argomenti matematici e geometrici è facilmente identificabile nei titoli (Seven Chances, 1925, di Buster Keaton, Sette spose per sette fratelli, 1954) e nelle trame (gli influssi negativi dei numeri 13 e 17, la presenza di matematici tra i personaggi).

 

  • Più sottile e intrigante appare il ricorso nel cinema a strutture di origine matematica che secondo Piergiorgio Odifreddi mettono in causa concetti tipicamente matematici quali permutazioni, combinazioni, simmetria, isomorfismo e omomorfismo nella genesi dell’opera. Succede nel romanzo La donna del tenente francese di John Fowles nella versione originale a finale multiplo, mentre nell’adattamento per lo schermo Harold Pinter sdoppia la storia tra passato e presente mantenendo i due diversi epiloghi.

 

  • In Sliding Doors (1998) di Peter Howitt tutta la vicenda cambia a seconda che Gwyneth Paltrow (qui nei panni di una impiegata appena licenziata) riesca o meno a prendere la metropolitana, scivolando tra le porte scorrevoli o trovandole implacabilmente chiuse.

 

  • Nel film tedesco Lola corre (1998) di Tom Tykwer la trama dispiega diverse possibilità collegate al tempo che Lola ha a disposizione per reperire la somma grazie alla quale può salvare il fidanzato.

 

  • Ci sono registi che su principi matematici fondano la propria poetica. Ne ricordiamo almeno due: Peter Greenaway e Darren Aronowsky. Il primo, dei numeri, parla in tutte le sue opere e nel 1988 struttura sui numeri Drowning by Numbers (che in Italia è stravolto in Giochi nell’acqua). Il titolo inglese fa riferimento agli album di disegni per bambini costruiti sulla base di numeri predisposti che aiutano i più piccoli a unire le linee fino a formare le figure complete. Tutte le vicende del film, che mescola argomenti come morte e sesso, giochi e complotti, acqua e numeri, problemi adolescenziali e immaturità degli adulti, sono strutturate sulla successione numerica da 1 a 100. Darren Aronofsky costruisce il suo primo lungometraggio (in bianco e nero) sulle formule matematiche che un giovane studioso ebreo, Max Cohen, studia ossessivamente per scoprire la chiave che regola la combinazione della Torah, considerato un linguaggio simile a quello divino. Per questo segue la via indicata dai fratelli Chudnovsky per il conteggio del pi greco, formula che dà anche il titolo al film: Pi greco il teorema del delirio (1996). E la matematica, pur non essendo più così in evidenza, si insinua anche nella struttura degli altri suoi film.

 

  • Una sezione a parte è costituita dal diffuso genere dei biopic di matematici: dal Blaise Pascal (1974) di Roberto Rossellini a Non ho tempo (1973) di Ansano Giannarelli sul matematico francese Evariste Galois con la sceneggiatura del poeta Edoardo Sanguineti, da Morte di un matematico napoletano (1992) di Mario Martone a A Beautiful Mind (2001) di Ron Howard, da Will Hunting genio ribelle (Will Hunting, 1997) di Gus Van Sant (quest’ultima biografia del tutto immaginaria, realizzata assommando una serie di cliché sui geni matematici) a The Imitation Game (2014) di Morten Tyldum con Benedict Cumberbatch, moderna rivisitazione degli ultimi anni di vita del geniale Alan Turing.

 

  • Infine è impossibile non ricordare la serie televisiva Numb3rs, che ha reso popolari concetti matematici e geometrici (come crittoanalisi, teoria della probabilità, teoria dei giochi) utilizzati per la soluzione di delitti e crimini, nell’assolata Los Angeles.

 

 

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